Redazione GDA
Leggi i suoi articoliAvevo chiesto a Nanda, durante i giorni del lockdown, di scrivermi i ricordi della sua infanzia e dei suoi straordinari nonni di cui più volte mi aveva raccontato. Volevo inserirli in una biografia che stavo preparando, li trovavo divertenti oltre che chiarificatori di alcuni aspetti del suo carattere. Questo racconto l’ha scritto solo per accontentarmi e oggi sono contenta di averlo raccolto, anche se lo pubblico con tutt’altro spirito. Lei stessa aveva titolato questo breve testo «Genealogia».
Nanda era una fusione fredda di ingegneria, astronomia, arte, spettacolo, architettura, imprenditoria innescata da un genetico istinto alla ribellione, alla libertà e alla ricerca oltre che ad una grande intelligenza. Ho sempre ritenuto che la sua durezza di carattere, i suoi modi sbrigativi con molte persone fossero l’inevitabile conseguenza della velocità del suo cervello; le persone la annoiavano e lei aveva sempre troppo da fare per starli a sentire. Chi meritava la sua attenzione, però, poteva contare su un’amicizia sincera e duratura.
È difficile immaginare una persona più fusa di lei con il suo lavoro. Erano una cosa sola, che viveva solo dell’Amore per l’Arte. Le rare persone come Nanda non cambiano, nascono così e di sicuro non muoiono.
Allegra Ravizza, presidente dell'Archivio Nanda Vigo
La «Genealogia»
Io, Fernanda Enrica Leonia, detta Nanda Vigo.
Il nome Fernanda deriva da quello del fratello di mia madre che fu ingegnere astronomo e scoprì anche una cometa che credo abbia il suo nome. Morì tragicamente durante uno sciopero in cui tentava di guidare un tram abbandonato. Mi dissero che era bello e molto all’avanguardia: io non l’ho mai conosciuto, ma probabilmente è proprio da lì che deriva il mio grande interesse per la fantascienza.
Gli altri nomi invece, Henry Leonie, derivano dalla madre di mio padre, nata Murer a Parigi, proveniente da una famiglia di Mulhouse in Alsazia. Divenne la segretaria privata del marito Oreste Vigo, giudeo massone, grande businessman. Investiva su tutto, dalle fabbriche per camicie a quelle che producevano ceramiche e fu tra i fondatori della «Centrale del Latte di Milano» e della Società del Giardino, una specie di Lions Club ante litteram.
Aveva anche una società di import-export parzialmente legata ai figli Murer che furono tra i primi a vendere telescopi e lenti per occhiali. Avevano un negozio in Galleria a Milano di fronte a Zucca, la cui insegna rimase sopra il negozio fino a poco tempo fa. Tra l’altro fu anche direttore del «banco dei pegni» della Banca d’Italia. Questo nonno Oreste fu un padre severissimo che trattò molto male mio padre, che da grande era troppo «fuori dalle righe».
Mi dissero che fu fatto direttore di alcune fabbriche e fece un passo falso, spendendo una fortuna per le «Ragazze della Schwartz», compagnie di operette che sfoggiavano bellezze e balletti tipo Bluebelles. Durante la guerra partì volontario nella Croce Rossa in Eritrea, il nonno lo diseredò totalmente e lasciò tutto alla sorella di mio padre.
Per fortuna la nonna Leonie, sua madre, gli lasciò dei terreni. Le origini del nonno Oreste arrivano proprio dal porto di Vigo in Spagna, da dove vennero espulsi dagli Aragonesi nel 1500 ca. Credo che tutti si siano riversati principalmente sulle coste italiane. In Sicilia, a Bagheria, esiste ancora un discendente, il marchese Fernando Vigo.
Mia madre Elsa Pellegrini Barbacini nacque a Milano da Ida Cidonia Coppini Barbacini Carnefecchi. La nonna Cidonia, molto intelligente e liberale, nacque a Vienna da madre ungherese. Visse la sua infanzia a Budapest, in Ungheria, dove studiò arte, dal momento in cui vi si appassionò fino a quando decise di scappare di casa per andare a Firenze. Era ancora l’«Ottocento» e normalmente le donne non si allontanavano da casa. Arrivò a Firenze e dopo qualche mese i suoi la misero in collegio dalle «Pratoline». A Firenze, poi, si sposò con il conte Carnefecchi: su questo io l’ho sempre presa in giro perché tutti dicevano che il Carnefecchi non era nessuno.
Dimenticavo di dire che il padre della nonna Cidonia fu gran maestro di ballo dell’Opera di Budapest e forse proprio per questo molto amante anche del teatro. A un certo punto partì per Milano dove conobbe Enrico Barbacini, allora direttore della Scala, figlio di un tenore molto famoso nell’Ottocento, anch’egli di nome Enrico Barbacini. La nonna ebbe da lui due figli, mia madre e il fratello Fernando.
L’Enrico Barbacini tenore fu amico di Boito e cantò per primo il Requiem di Verdi. La nonna Cidonia mi raccontò che dopo lo spettacolo lo aspettavano all’uscita, c’era la carrozza con i cavalli, ma toglievano i cavalli e lo portavano a braccia. Era anche molto conosciuto in Giappone e a San Pietroburgo dove partecipò a numerose opere, tra cui l’Aida e la Norma, suo cavallo di battaglia.
Vorrei anche ricordare che il figlio di Enrico Barbacini fu il primo a promuovere gli spettacoli all’Arena di Verona e aprì con una spettacolare Aida. E suo fu il merito di aver avviato la carriera del tenore Mario Del Monaco.
Insomma, la nonna Cidonia fu per me tutta la famiglia. Certo era severissima, a vent’anni dovevo tornare a casa entro mezzanotte, se no mi aspettava in piedi con la scopa in mano, ma fu anche l’unica persona che dette spazio al mio desiderio di lavorare nell’arte.
Né a mia madre, né tantomeno a mio padre interessava quello che avrei voluto studiare. A mia madre bastava che prendessi il diploma in economia domestica, tralasciando la lingua francese che comunque si parlava in casa da sempre (la cosa strana era che anche a Budapest come a Mosca, nelle famiglie benestanti si parlava solo francese).
Eravamo sfollati sul lago di Como. A Moltrasio c’era la Villa Vigo dove mio padre da ragazzo passava le vacanze. La darsena della villa in seguito ospitò il suo motoscafo da corsa con cui partecipava alle gare. Era molto amico di un certo Castoldi, allora campione di fuoribordo, ma non raggiunse mai grandi risultati (era solo sport), così come giocava a tennis e tirava di scherma, ovviamente alla Società del Giardino, di cui suo padre era fondatore.
Da ragazzina amavo molto il baseball, facevo parte del Cus Milano, ma non mi lasciarono mai andare da sola agli allenamenti, così mio padre ebbe il compito di accompagnarmi.
Tornando a Como, un giorno, passeggiando con i miei, mi trovai davanti alla Casa del Fascio di Terragni: non sapevo cos’era né di chi fosse, ma mi si offrì uno spettacolo di grande bellezza, un’incredibile illuminazione basata proprio sulla luce. La luce fluttuante dal vetrocemento aveva aperto tutta la sua architettura in un bagliore di luce.
Andando a spasso per Como riconobbi tutte le sue architetture. Un’illuminazione che nascosi nel mio inconscio fino a quando al liceo artistico inizia a pensare alla luce e a come potesse essere rappresentata. Nascita di un percorso che svolgo tuttora.
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