Per una vita Gianluigi Colin (Pordenone 1956) ha avuto a che fare con i giornali: 44 anni al «Corriere della Sera», molti dei quali da art director, e il ruolo avuto nel fondare e far crescere il supplemento culturale «La Lettura», di cui oggi è cover editor, gli hanno permesso di entrare in profondità nei meccanismi della comunicazione scritta e, al tempo stesso, di coglierne potenzialità artistiche e concettuali segrete e impensabili, che hanno portato le sue opere in importanti istituzioni italiane e internazionali.
Dall’8 febbraio al 23 marzo BUILDING gli dedica la personale «Gianluigi Colin. Post Scriptum», curata da Bruno Corà: in mostra, una quarantina di opere inedite, la gran parte delle quali realizzate, grazie alla sua originalissima intuizione, con il tessuto di poliestere che nelle tipografie, a fine lavoro, si inserisce nelle rotative con cui si stampano i quotidiani, le riviste, i libri, pulendole meccanicamente e intridendo così il tessuto degli inchiostri tipografici: «stracci di parole» li definisce lui, forme larvali via via più fievoli, di ciò che era stata la parola o l’immagine impressa sulla pagina.
«Da trent’anni ormai, spiega l’artista a «Il Giornale dell’Arte», rifletto nei miei lavori sul mondo dei media e in questi tessuti io vedo il simbolo della dissolvenza della memoria: sono quadri astratti ma sono anche un viaggio dentro la dissoluzione che il tempo porta con sé». Tanto più nel nostro presente, così vorace di notizie e così rapido nel dimenticarle.
Tutte realizzate negli ultimi tre anni proprio per questa mostra, le opere esposte appartengono a tre filoni del suo lavoro: oltre a quelle descritte sopra, che già conosciamo ma che qui mostrano un cambio di passo in virtù della dominanza dei rossi e dei neri («con una maggiore drammatizzazione, evidenzia l’autore, in sintonia con lo Zeitgeist del nostro tempo»), c’è un secondo nucleo formato da stendardi che esibiscono su una faccia le striature astratte, sull’altra dei tessuti jacquard con riproduzioni di frammenti del «Giardino delle delizie» di Bosch, rielaborati fino a diventare anch’essi pure forme astratte: «perché “Il giardino delle delizie”? Perché, spiega Colin, come diceva John Berger, di cui ero amico, quel dipinto è una grande metafora dell’esperienza umana, contenendo la rappresentazione della vita, della morte, del sesso, del dolore».
Il terzo nucleo di lavori è formato da lastre-matrice delle pagine di quotidiani trovate in una tipografia, sulle quali l’artista ha applicato gli stracci con cui i tipografi, dopo la stampa in quadricromia, puliscono le macchine («come fosse la pulitura dei pennelli per un pittore»): forme astratte, chiazze, aloni di colori vividi, avvampanti, inaspettati. E a commento di tutto, un video d’artista in cui si racconta il processo che a tutte queste immagini dà vita.
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