Edek Osser
Leggi i suoi articoli«A cosa serve Leonardo?». La domanda dà il titolo al volume scritto da Gino Famiglietti e Tomaso Montanari, con un sottotitolo che lascia intuire la risposta: «La ragion di Stato e l’Uomo vitruviano» (Scienze e Lettere, Roma 2020, pp. 224, € 20). Quasi un giallo, ricco di colpi di scena, del quale è però noto il finale. Famiglietti è un giurista, a lungo dirigente del Mibact e negli ultimi anni, fino all’agosto 2019, direttore generale Antichità, Belle arti e Paesaggio; il coautore Tomaso Montanari, storico dell’arte, dal giugno 2019 è anche presidente del Comitato tecnico scientifico per le Belle Arti dello stesso Ministero.
In 224 pagine il loro libro ricostruisce l’iter del prestito, assai controverso ma alla fine concesso, di un’opera d’arte: il disegno di Leonardo conosciuto come l’«Uomo vitruviano», uno dei gioielli delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, considerato ormai un simbolo dell’arte e della scienza di Leonardo e del Rinascimento.
Molti studiosi hanno cercato di spiegarne il significato richiamandosi anche al grande matematico Luca Pacioli, che Leonardo aveva conosciuto alla corte di Ludovico il Moro. Nel 1498 Pacioli aveva scritto un famoso trattato sulla «divina proporzione» mentre pochi anni prima, nel 1490, con l’«Uomo vitruviano» Leonardo studiava come applicare la sezione aurea alla geometria solida e, partendo dalla sfera, aveva realizzato una serie di figure geometriche perfette.
Gli autori ricordano che forse Leonardo avrebbe voluto usare quel disegno d’uomo come frontespizio di un libro illustrato, un trattato di cinetica o di scultura. Il testo scritto che circonda la figura umana è un brano di Vitruvio, quindi rimanda all’architettura anche se si riferisce a un corpo vivente e alle sue misure armoniche che permettono di iscriverlo proprio in un quadrato e in un cerchio.
Arrivato in mostra al Louvre, il celeberrimo disegno è poi rimasto esposto per soli 2 mesi tra i capolavori di richiamo alla mostra aperta per 5 mesi, dal 24 ottobre 2019, per celebrare i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci: un grande successo con 1 milione di visitatori.
Gli autori del libro raccontano e commentano, passo dopo passo, come e perché questo disegno, tanto famoso, ma fragile e considerato inamovibile, sia stato prestato al Louvre. Per spiegare quella decisione, da loro non condivisa, gli autori hanno condotto un’inchiesta minuziosa accompagnata in appendice da decine di documenti. Citano norme, leggi, regolamenti che avrebbero dovuto regolare e quindi impedire il prestito e attribuiscono il consenso finale a un’indebita interferenza del potere politico.
Il racconto di A cosa serve Leonardo? parte dal vertice internazionale del 27 settembre 2017, a Lione, tra il presidente francese Emmanuel Macron e Paolo Gentiloni, allora nostro presidente del Consiglio, dove si discute per la prima volta in via ufficiale della mostra su Leonardo al Louvre. Nell’accordo finale i due Paesi si impegnano a un più ampio scambio sul piano culturale e in particolare a una reciproca «valorizzazione del patrimonio culturale» con l’avvio di «un partenariato sui prestiti di opere previste per le grandi mostre che avranno luogo nel 2019 al Louvre su Leonardo da Vinci e nel 2020 alle Scuderie del Quirinale su Raffaello».
Ancora nessun cenno all’«Uomo vitruviano», ma l’accordo siglato a Lione per uno scambio di opere d’arte impegna la politica culturale dei due Paesi al più alto livello. Qui il «commento», redatto da Montanari, chiarisce quale sia «la domanda fondamentale che attraversa il libro» e la rivolge «ai lettori» del volume: «È giusto, fisiologico, “normale” che un capo di Stato e un capo di Governo si occupino del prestito di opere d’arte tra musei dei rispettivi Paesi?».
Il libro è ricco di citazioni e di ragionamenti intorno ai doveri di tutela e all’uso corretto del patrimonio artistico.
Secondo gli autori «nell’Italia di oggi», tante mostre «blockbuster» di successo «non sono operazioni culturali ma politiche», e gli stessi si domandano: «quanto “carattere culturale” c’è nell’uso che i Governi fanno del patrimonio di cui dovrebbero essere attenti custodi?». Insomma, nella nostra Repubblica, nell’art. 9 della Costituzione, nel Codice dei Beni culturali e nelle disposizioni che, anche sui prestiti all’estero, danno poteri decisionali ai direttori del Mibact, non ci sarebbe posto per scelte prese dalla «politica», secondo la «ragion di Stato».
Con queste premesse, spiegano Famiglietti e Montanari, fin dal marzo 2018 una prima «indebita ingerenza politica» si manifesta con la «specifica volontà» dell’allora ministro Dario Franceschini, espressa alla direttrice dell’Accademia Paola Marini, di concedere i prestiti richiesti. Ma tra le opere chieste dal Louvre per la mostra vi è anche l’«Uomo vitruviano». Tra aprile e ottobre 2018 le Gallerie dell’Accademia fissano l’elenco delle opere che, per l’elevatissimo valore culturale e artistico o per motivi di conservazione, «non possono essere spostate dal museo». Tra queste c’è anche il disegno di Leonardo perché «opera identitaria», tra quelle che costituiscono «il fondo principale» dell’Accademia.
Ma la direttrice Marini intanto va in pensione e, nel giugno 2018, nasce un nuovo Governo. Ministro del Mibact diventa Alberto Bonisoli. Giovanni Panebianco, nominato segretario generale, avoca a sé ad interim la direzione delle Gallerie dell’Accademia, in attesa del nuovo direttore. Il segretario generale, spiega il libro, chiede al Gabinetto Disegni e Stampe delle Gallerie se sia possibile spostare a Parigi il famoso disegno senza danneggiarlo. La risposta è positiva a certe condizioni e quindi, seguendo «le indicazioni del ministro» e considerati i caratteri «di diplomazia culturale e di interesse nazionale» del prestito, Panebianco decide che l’«Uomo vitruviano», nonostante sia incluso nella lista delle opere inamovibili, potrebbe essere prestato al Louvre.
L’Accademia però, in una dettagliata relazione, fa ancora presente la fragilità dell’opera, soprattutto i rischi di una prolungata esposizione alla luce. Il libro segue ancora i passi del segretario generale, che chiede (aprile 2019) un’ulteriore «valutazione tecnico scientifica» all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Il disegno non viene esaminato direttamente ma la risposta dell’Opificio è che, dai documenti consultati, non «si evince» alcun problema così grave e serio che possa portare a negare il prestito dell’opera «pur fragile e delicata». Viene allora consultato anche l’Istituto Superiore per la conservazione ed il restauro, che giudica positiva la proposta del Louvre di ridurre al minimo l’illuminazione del disegno in mostra, per evitargli un’esposizione eccessiva alla luce, vengono calcolati i tempi tollerabili della sua illuminazione e viene quindi stabilito che l’opera rimarrà in mostra per soli due mesi.
Dunque, dal punto di vista della conservazione tutto sembra risolto e il consenso al prestito pare ormai scontato. La decisione finale spetterebbe al nuovo direttore delle Gallerie dell’Accademia Giulio Manieri Elia, nominato nel frattempo. Resta però il problema di fondo: il disegno di Leonardo è sempre nella lista delle opere che non possono comunque lasciare il museo. Il direttore coinvolge allora i vertici del Mibact e chiede di «valutare l’espressione di un parere finale al prestito»: il direttore generale Musei Antonio Lampis risponde che, secondo la «prassi amministrativa» il prestito andrebbe negato perché è tra le opere «identitarie» inamovibili, ma che il rifiuto «deve ritenersi suscettibile di essere superato da indicazioni di opportunità legate alla sempre più intensa diplomazia culturale, che ha ricollocato il valore della cultura e in particolare il tema degli scambi culturali in un nuovo altissimo livello di attenzione dell’opinione pubblica e quindi dei massimi decisori politici». L’«Uomo vitruviano» viene così «liberato» e prestato al Louvre. Nell’ottobre 2019, un estremo tentativo di Italia Nostra per impedire quel viaggio, con il ricorso al Tar di Venezia, viene respinto.
In definitiva, A cosa serve Leonardo? esamina al microscopio «un caso di scuola», esempio pratico di «interferenza politica» che si sovrappone alle leggi e le contraddice per un interesse politico «superiore»: non quello di promuovere la cultura ma, dicono gli autori, pubblicizzare all’estero il marchio di un’Italia patria dell’arte. Il comando resta così nelle mani della politica che però, affermano Famiglietti e Montanari, in molti casi non si preoccupa di applicare l’art. 9 della Costituzione, a tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione, ma se ne serve per mettere in scena mostre che vogliono essere soltanto un grande spettacolo mediatico. Ecco dunque «A cosa serve Leonardo».
Gli autori affermano con decisione che «le opere d’arte non dovrebbero più essere pedine della ragion di Stato» ed essere usate per «mostre politiche», di propaganda. Non solo: il loro libro, primo di una serie, in questo caso vuole «evidenziare le criticità di operazioni di valorizzazione condotte in violazione delle regole vigenti». Per secoli, ricordano ancora i due esperti, «sovrani, papi, cardinali, hanno usato arte e artisti a loro piacere» e questo perché servivano anche a esaltare il loro potere. Va anche ricordato che, da parte loro, gli stessi artisti, compresi i più famosi, hanno cercato di compiacere i potenti datori di lavoro creando per loro infiniti capolavori.
Un uso politico o propagandistico era all’origine della committenza della maggior parte delle opere. Perché oggi non dovrebbero più assolvere a quelle stesse funzioni per le quali furono create? Perché oggi, spiegano gli autori del libro, esistono leggi e norme precise che regolano l’intero sistema della tutela, prestiti compresi, e dovrebbero annullare la volontà politica che intenda violarle. Oltre al freno e agli ostacoli di una burocrazia troppo pesante, accade che i politici a volte concordino direttamente con i rappresentanti di Stati esteri programmi di mostre e scambi tra grandi musei, come è avvenuto nel caso di Leonardo. Questo deve essere consentito lasciando poi la realizzazione dei programmi ai dirigenti museali.
Ma anche le leggi attuali forse non sono sufficienti. La competenza tecnica e i poteri di cui dispongono i responsabili amministratori, si dice ancora nel libro, non bastano a farne dei bravi dirigenti. Condizionati da interessi di carriera o da scarsa indipendenza a volte scelgono di non esercitare appieno il loro ruolo e preferiscono cedere alla forza della politica. E questo sembra il caso dell’«Uomo vitruviano».
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