Bénédicte Savoy
Leggi i suoi articoliIn due minuti e trenta secondi, il 28 novembre 2017, Emmanuel Macron ha spazzato via in un solo colpo svariati decenni di atti e di discorsi ufficiali francesi in materia di patrimonio culturale e di musei. L’ha fatto in un «luogo dove non si può barare», come l’ha definito, la sovraffollata aula magna di un’Università africana, sotto gli occhi del presidente burkinese Roch Kaboré e degli obiettivi delle telecamere di France 24.
L’ha fatto a nome della gioventù, genio tutelare invocato sette volte: «Appartengo a una generazione di francesi per i quali i crimini del colonialismo europeo sono incontestabili e fanno parte della loro storia». «Voglio che nell’arco di cinque anni si siano verificate le condizioni per delle restituzioni temporanee o definitive del patrimonio culturale africano all’Africa». Applausi e fischi. Su Twitter, l’Eliseo rincara la dose: «Il patrimonio culturale africano non può essere prigioniero dei musei europei».
Dal «New York Times» alla «Süddeutsche Zeitung», la stampa occidentale registra stupefatta questo movimento tettonico. In Africa e fuori dall’Africa quanti combattono da tempo per la restituzione del patrimonio culturale disperso vedono l’avvento di una nuova era. A Berlino, il discorso di Emmanuel Macron ha alimentato una violenta polemica in merito all’amnesia coloniale da cui sembrano essere stati colpiti i progettisti del futuro Humboldt Forum, che dovrà ospitare dal 2019 le collezioni etnologiche dell’antico Stato prussiano. In una lettera aperta ad Angela Merkel, quaranta organizzazioni della diaspora africana in Germania esortano la cancelliera a reagire alla «storica iniziativa del presidente francese».
Il Dipartimento cultura del Ministero degli Esteri tedesco saluta con favore la ventata d’aria nuova creata da Macron e lancia l’idea di una conferenza internazionale sulla questione, sul modello di quella organizzata a Washington nel 1998 sui beni trafugati alle famiglie ebree d’Europa. Se la questione riguarda principalmente Parigi e le sue importanti collezioni d’arte africana, il discorso di Ouagadougou impegna anche l’Europa e il substrato coloniale o missionario di tutti i suoi musei etnologici o cosiddetti universali.
Dal British Museum (più di 200mila oggetti africani) al Weltmuseum di Vienna (37mila), dal Musée Royal de l’Afrique Centrale in Belgio (180mila) al futuro Humboldt Forum di Berlino (75mila), dai Musei Vaticani al Musée du quai Branly (70mila), la storia delle collezioni africane è una storia europea, un affare di famiglia se si vuole, in cui curiosità estetica, interessi scientifici, spedizioni militari, reti commerciali e «opportunità» di ogni genere hanno contribuito ad alimentare le logiche del dominio, dell’affermazione e delle rivalità nazionali. I musei delle capitali europee sono i depositari della creatività umana, ma anche, non per colpa loro, di una storia più triste e troppo raramente raccontata.
Ancora oggi, in Francia come altrove in Europa, la semplice parola «restituzione» suscita automaticamente una reazione di arroccamento in posizioni difensive. Di questo tipo di reazione diede dimostrazione pubblica François Mitterrand nel 1994 quando, per ringraziare Helmut Kohl per la restituzione da parte della Germania di 27 quadri francesi sottratti dai nazisti, commentò: «Quanti conservatori dei nostri Paesi, quanti responsabili dei nostri grandi musei devono questa sera provare una certa inquietudine. E se questo si generalizzasse? Non credo di sbagliare nel pensare che questo esempio resterà isolato e che il contagio si arresterà molto in fretta».
Restituzioni e contagio; prudenza politica e terrore dei musei: apparteniamo a una generazione che ha conosciuto soltanto restituzioni dolorose o strappate dopo lunghe lotte. Nessuno in Francia ha dimenticato la «guerra di trincea» sostenuta nel 2010 dai conservatori della Bibliothèque Nationale de France quando, a margine di trattative commerciali, Nicolas Sarkozy si era impegnato a restituire alla Corea del Sud quasi 300 preziosi manoscritti provenienti da una spedizione punitiva dell’esercito francese nel 1866. Nessuno dimentica in Italia il mezzo secolo di negoziati che fu necessario per rendere all’Etiopia l’obelisco di Axum sottratto da Mussolini nel 1937. E a nessuno a Berlino piacerebbe se un giorno si restituisse alla Tanzania l’immenso scheletro fossile del più grande dinosauro del mondo, il Brachiosaurus brancai, «importato» nel 1912 dai territori allora soggetti al protettorato del Reich.
Si possono per il futuro ipotizzare restituzioni felici e condivise nel duplice interesse dei popoli e degli oggetti? È possibile pensare a restituzioni in cui la posta in gioco non sia puramente strategica, né semplicemente politica o economica, ma anche e veramente culturale? L’annuncio fatto a Ouagadougou sembra rispondere positivamente alla domanda. Trae forza da un cambio di generazione. Suggerisce che una condivisione è possibile. E contro ogni aspettativa, non ha suscitato quella levata di scudi istituzionale cui ci hanno abituato (ancora un riflesso incondizionato) le discussioni di questi ultimi anni. Al contrario, invitato a commentare le dichiarazioni di Emmanuel Macron, il presidente del Musée du quai Branly Stéphane Martin è andato nella stessa direzione sottolineando come non si «può concepire un continente fino a questo punto privato delle testimonianze del suo passato e del suo genio plastico», che la situazione «non è destinata a durare» e «che il destino di questi pezzi passerà certamente attraverso la restituzione di una parte di essi». Secondo colpo di scena, questa volta istituzionale.
Ora che si fa? Prima di tutto, in fretta e senza fare finta, si uniscano al dibattito francese voci multiple di attivisti, intellettuali, responsabili politici, professionisti di musei, africani d’Africa e africani della diaspora, mecenati, insegnanti, artisti, persone che auspicano le restituzioni e persone contrarie. Ci si metta intorno a un tavolo, ci si ascolti.
Successivamente si faccia bene attenzione a non interferire nella sfera decisionale altrui. Quando, dopo Waterloo, la Francia restituì all’Europa le opere trasferite a Parigi durante la Rivoluzione e l’Impero, non spiegò al papa e ai sovrani di Germania, Austria, Spagna ecc. il modo corretto per valorizzare e conservare le loro collezioni. Ci vollero in molti casi vari decenni e dibattiti contraddittori perché questi Paesi avessero politiche culturali «moderne» e infrastrutture adatte. A Berlino, per esempio, si dovette attendere il 1830 perché le opere restituite dalla Francia quindici anni prima fossero esposte in un museo pubblico. Allo stesso modo nel 1945 gli americani non dissero ai francesi come trattare le opere da loro recuperate nella Germania nazista e lo Stato francese non esitò, al ritorno di queste opere, a venderne diverse migliaia all’asta. Bisogna lasciare a quanti recuperano le opere l’attenzione e il tempo di trovare le soluzioni per loro migliori.
E poi, e soprattutto, bisogna permettersi di sognare: immaginare delle configurazioni giuridiche inedite, testare nuove forme di collaborazione, come quelle praticate da dieci anni dalla Fondation Zinsou nel Benin, inventare dei modelli flessibili, adattati alle realtà di un continente immenso, dove la distanza tra Dakar e Pretoria è superiore a quella che separa Parigi e Pechino e dove l’età media della popolazione è di 21 anni (contro gli oltre 40 in Europa). Bisogna pensare in piccolo e in grande, a corto e a lungo termine. Bisogna pensare, naturalmente, a quelli che riceveranno le opere, ma non bisogna sottovalutare quelli che, in Francia e altrove, si sentiranno forse feriti nel loro «orgoglio patrimoniale» o nella loro «identità culturale».
Bisognerà prendersi il tempo necessario per spiegare all’opinione pubblica di «casa nostra» che cosa è stato fatto e perché, raccontare ai visitatori dei musei come si erano formate le collezioni, come, quando e a quale prezzo queste opere sono arrivate da noi. Bisognerà rimettere in discussione certe «evidenze» e certi «tabù» museografici. Se dobbiamo percorrere questa via, dobbiamo percorrerla con gioia, una gioia responsabile, prudente e consapevole che dia un’anima a questo grande progetto del XXI secolo. «Voglio che nell’arco di cinque anni si siano verificate le condizioni per delle restituzioni temporanee o definitive del patrimonio culturale africano in Africa», ha detto Macron. Scommettiamo…
Bénédicte Savoy, professoressa al Collège de France, titolare della cattedra di Storia dei patrimoni artistici in Europa, XVIII-XX secolo. Il 5 marzo scorso il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron l'ha nominata, insieme allo scrittore senegalese Felwine Sarr, «esperto culturale» con l'incarico di studiare la restituzione ai Paesi d'origine delle opere d'arte africana attualmente conservate in Francia.
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