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Antonio Spadaro
Leggi i suoi articoliPer comprendere la proposta di Michelangelo Pistoletto sul rapporto tra arte e religione occorre innanzitutto riconoscere quanto il modello tradizionale sia in crisi. Per secoli, infatti, l’arte occidentale ha operato sotto il regime della committenza ecclesiastica. La religione commissionava opere per edificare, educare, trasmettere visioni del mondo; l’artista era chiamato a tradurre in immagini contenuti dottrinali o liturgici. Questa dinamica ha prodotto straordinari capolavori, dalle basiliche bizantine ai cicli affrescati del Rinascimento, ma ha anche fissato un ordine gerarchico: la religione come fonte di senso e autorità, l’arte come strumento esecutivo. Come lo stesso pontefice Paolo VI riconobbe nella sua memorabile omelia agli artisti del 1964, la modernità ha spezzato questo legame, liberando l’arte dal vincolo istituzionale, ma spesso anche recidendo il rapporto con la dimensione simbolica e archetipica del sacro.
Pistoletto non si limita a denunciare la crisi della committenza. La sua proposta è più radicale: invertire il paradigma. Non è più la religione a rivolgersi all’arte per farsi rappresentare, ma è l’arte a chiedere alla religione di fornire immagini, archetipi, parole che possano riattivare un linguaggio capace di dire l’oltre. Lo conferma la mostra «UR-RA-Unity of Religions / Responsibility of Art», curata da Francesco Monico e allestita negli spazi della Reggia di Monza dal primo novembre al 31 ottobre 2026.
L’arte contemporanea, immersa in una costellazione di tecnologie, mercati e linguaggi iper-razionali, rischia infatti di restare prigioniera dell’immediato, incapace di aprire varchi sul senso. Il nostro mondo è saturo di immagini, eppure vuoto di simboli. È un «inferno», direbbe Timothy Morton, non perché dominato dal male in senso tradizionale, ma perché dominato dall’immanenza assoluta, da una sorta di pianura infinita senza più varchi verso l’altrove. In questo inferno, ciò che manca non è la proliferazione dei segni, ma la possibilità di attraversarli, di aprirli a un senso ulteriore. L’arte contemporanea si trova allora in una condizione paradossale: ha perso il committente tradizionale, la religione istituzionale, appunto, ma non può rinunciare a cercare un linguaggio che dica l’oltre. Da sola non basta. Il rischio è che l’arte si chiuda in un loop estetico, autoreferenziale, o diventi un’appendice del mercato, incapace di esprimere quella «eccedenza» che è propria dell’esperienza estetica autentica.
Ecco allora perché l’arte può tornare a bussare alle porte della religione. In questo contesto, la religione non è più una committente, ma diventa un archivio simbolico, una riserva semantica che consente all’arte di riappropriarsi di una grammatica dell’«oltre» e del senso. Se consideriamo il Cristianesimo, pensiamo al gesto del pane spezzato, al battesimo nelle acque, alla croce, al pellegrinaggio, al vuoto del sepolcro: sono immagini che non hanno mai cessato di interrogare, e che l’arte contemporanea può assumere e trasfigurare, liberandole da una lettura puramente «devozionale» e restituendole alla loro forza originaria.
Non si tratta di restaurare un rapporto di subordinazione, dunque. La religione non deve fornire dogmi da illustrare, né l’arte deve farsi ancella di un messaggio precostituito. L’inversione proposta da Pistoletto consiste piuttosto nel riconoscere che le religioni custodiscono, nel loro deposito millenario, le immagini più potenti e i termini più generativi. Ad esempio, dire «annunciazione» non equivale solamente a raccontare un episodio evangelico, ma anche a evocare l’archetipo di ogni rivelazione inattesa, di ogni parola che trasforma radicalmente l’esistenza. Parlare di «misericordia» significa immettere nel discorso contemporaneo un concetto che sovverte la logica della retribuzione per aprire spazi di dono, cura, riconciliazione. Utilizzare il termine «affaccio», come fa Pistoletto in Spiritualità (Marsilio, 2025), un nostro libro di conversazioni, significa rimettere in gioco la postura dell’uomo che si espone al mistero senza possederlo. Questi vocaboli non appartengono al linguaggio corrente delle società secolarizzate, ma proprio per questo, se riattivati dall’arte, diventano dispositivi di senso.
Il concetto di affaccio è emblematico. Pistoletto descrive l’uomo come essere in soglia, sempre proteso oltre sé stesso. L’affaccio non promette risposte, ma crea condizioni per nuove domande. La formula provocatoria dell’artista, «C’è Dio? Sì, ci sono», va letta in questa chiave: non un’affermazione teologica, ma un’assunzione di responsabilità. L’uomo, affacciandosi sul mistero, riconosce che la propria esistenza è già parte della domanda. In questo senso, l’opera d’arte non è illustrazione di un contenuto religioso ma dispositivo che mette in scena l’affaccio stesso: lo specchio che rimanda il volto dell’osservatore, la mano impressa su una parete preistorica, il vuoto fertile del «Metrocubo d’infinito». L’arte traduce l’affaccio in esperienza concreta, costringendo chi guarda a prendere posizione.
Questo passaggio mostra come Pistoletto non cerchi un ritorno nostalgico al sacro, ma un suo uso critico. Le religioni, interpellate dall’arte, sono invitate a consegnare i propri archetipi non come reliquie ma come materiali vivi. L’arte, da parte sua, li assume per decostruirli e rilanciarli in forme nuove, senza riverenza né iconoclastia. Ne nasce un terreno di scambio in cui l’arte obbliga la religione a riconoscere la propria funzione immaginativa, mentre la religione costringe l’arte a misurarsi con la densità simbolica che eccede la pura estetica.
La chiave concettuale di questo approccio è la trinamica, principio elaborato da Pistoletto per superare la logica binaria. Nel simbolo del Terzo Paradiso, due cerchi opposti generano un terzo cerchio centrale: non un compromesso, ma una nuova realtà. La trinamica rifiuta la dialettica che riduce gli opposti a sintesi, e propone invece una coesistenza generativa. Qui gli archetipi religiosi trovano la loro funzione: non come contenuti dogmatici, ma come operatori simbolici capaci di ospitare tensioni e di trasformarle.
Il valore politico di questa impostazione emerge nella nozione di pace preventiva. Per Pistoletto, la pace non è assenza di conflitto né esito di trattative, ma un atto creativo che costruisce condizioni nuove prima che lo scontro si manifesti. È la stessa logica dell’arte: non limitarsi a registrare ciò che accade, ma generare possibilità inedite. Qui gli archetipi religiosi si rivelano strumenti indispensabili, perché permettono di immaginare la convivenza al di là delle logiche di dominio. L’arte, alimentata da queste risorse simboliche, si fa laboratorio di relazioni nuove, un’officina che lavora sulle differenze per trasformarle in opportunità.
Tutto ciò non implica che arte e religione si fondano in un indistinto. Al contrario: la loro forza sta nel rimanere differenti. L’arte conserva la propria autonomia critica, la religione la propria vocazione trascendente. Ma nella misura in cui entrambe si riconoscono come forze linguistiche e non come sistemi chiusi, esse si incontrano su un terreno comune: la produzione di immaginari condivisi. L’esito non è un sincretismo, bensì un cantiere aperto di archetipi, in cui le parole e le immagini religiose sono continuamente riattivate, decostruite, rielaborate. «Abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio nuovo, di storie e immagini potenti, aveva detto papa Francesco, rivolgendosi a poeti ed artisti, voi avete la capacità di sognare nuove versioni del mondo».
Il contributo di Pistoletto consiste allora nell’aver mostrato che l’arte, per non ridursi a merce o a esercizio di stile, deve misurarsi con gli archetipi più profondi della cultura umana; e che la religione deve accettare di offrire il proprio deposito simbolico non solamente come dogma ma anche come linguaggio. In questa tensione, arte e religione non si annullano, ma si rigenerano reciprocamente. È un orizzonte critico e aperto, che sfida tanto il secolarismo superficiale quanto la nostalgia sacralizzante. Ed è qui, forse, che si gioca una delle partite decisive del pensiero artistico contemporaneo.