Austriaca una, italiana l’altra, Birgit Jürgenssen (Vienna, 1949-2003) e Cinzia Ruggeri (Milano, 1942-2019) condividono solo il decennio di nascita e la stagione della formazione, che per entrambe è avvenuta negli anni ’60, ma in vita non si sono mai incontrate. Eppure, la loro tensione verso una sperimentazione che sovvertisse le convenzioni, la capacità di sconfinare tra saperi diversi, lo sguardo partecipe verso la questione femminile, sono prova di evidenti tangenze fra i loro percorsi. Senza contare che in quegli anni ’60 e ’70 in cui il ruolo della donna nella società era oggetto di brucianti dibattiti, che riguardavano anche il disvelamento del corpo (e il suo «uso»: basti pensare alla questione dell’aborto), per condurre le loro battaglie entrambe si servivano del linguaggio dell’ornamento e dell’accessorio, intesi come prolungamenti del corpo femminile.
Affinità, le loro, che hanno suggerito il progetto di una duplice personale, resa anche più stimolante dalla curatela, affidata a Maurizio Cattelan e Marta Papini. Intitolata «Lonely Are All Bridges. Birgit Jürgenssen e Cinzia Ruggeri» (il verso è di Ingeborg Bachmann), la mostra prende il via il 16 gennaio alla Fondazione Ica, a Milano, dove sarà visibile fino al 15 marzo. A renderla possibile è stato il concorso dell’Estate Birgit Jürgenssen di Vienna e l’archivio Cinzia Ruggeri di Milano, oltre che le gallerie Federico Vavassori (Milano) e Hubert Winter (Vienna), dove la rassegna aveva esordito nel 2021 con la stessa curatela ma in forma più ridotta. Ne parliamo con i curatori.
Maurizio Cattelan, se non sbaglio la sua prima curatela con Marta Papini fu nel 2014, per la mostra «Shit and Die», a Torino. Poi, nel 2018, fu la volta di «The Artist is Present» a Shangai e nel 2021 di «Lonely Are All Bridges. Birgit Jürgenssen e Cinzia Ruggeri» a Vienna. Perché, da artista di grande successo quale è, ha deciso di essere anche curatore? Che cosa le piace di questo ruolo?
Per il mio lavoro cerco di vedere più mostre possibili e a un certo punto, a forza di vedere così tanta arte, è stato naturale immaginare mostre che includessero opere altrui. È stato liberatorio: mi ha permesso di avere a che fare con l’arte senza essere direttamente coinvolto nella produzione di opere nuove. Ho iniziato affiancando Ali Subotnick e Massimiliano Gioni per la Berlin Biennale e la Wrong Gallery, due esperienze che mi hanno insegnato moltissimo, e poi ho continuato con Marta Papini. È una curatrice che stimo e ormai ci conosciamo così bene che sembra potermi leggere nel pensiero. Quando hai la fortuna di trovare qualcuno con cui lavori così in armonia, provi a farlo tutte le volte che puoi.
Marta Papini, da esperta curatrice quale è lei, che cosa significa lavorare con un artista tanto geniale quanto, per molti, urticante ed «eccentrico» (nel senso etimologico della parola) come Cattelan? Come vi dividete i compiti?
C’è un rapporto di stima e fiducia reciproca, e devo dire che gli aggettivi con cui lei lo descrive non sono i primi a cui avrei pensato. Nella quotidianità Maurizio è molto più gentile e premuroso che urticante o eccentrico. Entrambi facciamo ricerca vedendo mostre e facendo studio visit, e ci segnaliamo quello che troviamo più interessante. Curare con Maurizio mi ha insegnato ad avere una grande libertà in termini di associazione tra le opere, di allestimento e di narrazione.
Al di là delle affinità, perché una mostra di due artiste, scomparse entrambe e che non si sono mai incontrate?
M.C. e M.P.: Birgit Jürgenssen e Cinzia Ruggeri hanno lavorato negli stessi anni e con risultati molto diversi, ma entrambe si sono scontrate con la non permeabilità dei mondi creativi: arte, fotografia, moda, design erano (e in parte sono ancora) strade parallele che non si incontravano, e una volta intrapresa una strada era difficile tornare indietro, o scartare di lato. Sia Jürgenssen sia Ruggeri sono rimaste intrappolate in ruoli rigidi, che non si addicevano alla loro ricerca trasversale e multidisciplinare. Jürgenssen è stata molto conosciuta per la sua fotografia, ma ha prodotto anche fantastici disegni e sculture, giocando con l’estetica della moda. Ruggeri ha iniziato nell’arte e poi si è spostata su moda e design, e solo negli ultimi anni della sua vita è rientrata a far parte del circuito dell’arte visiva.
Rispetto alla mostra di Vienna, a Milano esponete lavori diversi? O è diverso il taglio curatoriale?
M.C. e M.P.: Il taglio curatoriale è lo stesso, ma abbiamo integrato la selezione perché lo spazio di Ica è diverso e più esteso di quello di Vienna. Inoltre, non avevamo avuto la possibilità di fare ricerca dal vivo a causa del Covid, mentre questa volta ci siamo presi più tempo per visite e sopralluoghi. La cosa stupefacente è che più andavamo avanti a cercare, più trovavamo analogie e riferimenti tra i due corpi di lavori.
Potete anticiparci qualcosa della mostra?
M.C. e M.P.: Abbiamo cercato di rendere omaggio a queste due artiste associando liberamente opere scultoree, copie e originali di disegni e fotografie, oggetti di design e oggetti da sfilata senza gerarchie e a volte ingigantendo presenze che nell’originale sarebbero state in dimensione minuta. Ci siamo presi qualche libertà e speriamo di aver fatto un buon servizio a entrambe.
Perché, a Milano, avete scelto di presentarla all’Ica?
M.C. e M.P.: Ica ci è sembrato la giusta combinazione: è uno spazio istituzionale ma non museale. La mostra non ambisce a essere una retrospettiva per le due artiste: è un invito a chi non le conosce ancora ad approfondire le loro ricerche, senza la pretesa di essere esaustivi.
E per finire una domanda forse impertinente a Maurizio Cattelan: com’è riuscito a convincere Emmanuel Perrotin a vestirsi per settimane da coniglio-fallo gigante e Massimo De Carlo a farsi imbragare al muro fino a perdere i sensi? Li ha ipnotizzati, sedati, o che altro?
MC: Soprattutto all’inizio, i galleristi sono i tuoi parenti più stretti, quelli con cui condividi tutto. Quando ho iniziato a lavorare con Massimo, così come con Emmanuel, ho sentito il bisogno di un battesimo del fuoco, di una prova d’amore. Vedere che cosa erano disposti a fare in nome dell’arte mi ha aiutato a capire se potessi fidarmi di loro, e ha funzionato!