Gelitin/Gelatin è considerato uno dei gruppi più anarchici e sfuggenti del paesaggio artistico europeo contemporaneo. La loro mostra dal titolo «Nimbus Limbus Omnibus», aperta fino al 30 giugno 2025 al Forof di Roma, a cura di Bartolomeo Pietromarchi, è la loro iniziativa più recente, che fa dialogare numerose installazioni con il contesto archeologico del luogo. Nel programma della mostra figurano anche performance disseminate fino a giugno 2025.
Abbiamo incontrato tre dei quattro artisti nel loro atelier viennese: Tobias Urban, Florian Reither e Wolfgang Gantner. Ali Janka era «in giro».
Il giorno dell’inaugurazione romana avete realizzato la prima delle quattro performance in programma. Com’è andata, visto che avete servito ai partecipanti un rinfresco a base di sculture di budini di cioccolato a forma di cacca?
Tobias Urban: È andata bene, la gente si è divertita e si sono create delle situazioni comunicative fra i presenti.
Florian Reither: L’aspetto performativo è derivato dal pubblico stesso: se qualcuno prende in mano il piattino col budino, mangia e magari posa per una foto, poi anche senza conoscere nessuno può entrare in dialogo con altri. Quel piattino è un catalizzatore di conversazioni. E va detto che metà della gente era sotto i 30-35 anni, il nostro pubblico è molto giovane.
Wolfgang Gantner: È stata davvero una bella festa.
Gli escrementi sono molto presenti nella vostra produzione: da minuscoli mucchietti a sinuose forme in vetro, a mucchi giganteschi, come quelli che avete presentato nel 2018 in Olanda. Anche a Vienna qualche tempo fa, in occasione di una mostra, avete servito piattini con dolci a forma di cacche.
T.U.: A Vienna era cioccolato duro, a Roma era più pudding, la consistenza era migliore, più gradevole che mordere cioccolata dura.
Nel caso specifico, qual è stato il collegamento con la mostra?
T.U.: È una bella forma che ci accompagna da tempo e riassume parecchio di quel che facciamo. È come quando schiacci fuori da un tubetto del colore. Spremi ed esprimi qualcosa che avevi dentro. Nelle nicchie al Forof se ne vedono molte varianti. C’è, per esempio, il modello che abbiamo fatto per Rotterdam, c’è un fermacarte di vetro e altre in terracotta. La cosa non va intesa come commento sull’istituzione ospite. L’intento non è affatto quello, ha piuttosto un che di gaudente. La cacca non è né razzista né sessista.
Tutti ci si possono democraticamente riconoscere?
T.U.: Sì.
Nel corso della mostra avete in programma altre tre performance. Che cosa ci aspetta?
T.U.: Non performance. Episodi.
F.R.: Macché episodi. Se dici episodio, uno pensa subito a un qualche problema psichico.
Possiamo dire eventi?
T.U.: Ma sì.
E che cosa accadrà?
T.U.: A gennaio il tema sarà Laocoonte. Faremo vedere la mostra in un nuovo contesto.
F.R.: Ad aprile sarà una festa di compleanno per Leonardo da Vinci.
T.U.: Per giugno il titolo sarà «Cazzomissio» e sarà un contributo alla liberazione della società dal machismo, che è un problema sociopolitico non solo italiano.
F.R.: La buona arte è sempre politica. Qualche volta reagiamo a qualcosa che ronza nell’aria, che so, grandi cambiamenti sociali, o certe situazioni, ma non ci interessa l’attualità politica. Ed è da questo che nasce anche una certa rilevanza delle opere.
Possiamo aprire una parentesi sul vostro nome? È Gelatin? Gelitin? Gelitin/Gelatin? Che cosa scrivo?
T.U.: Quel che vuole, va bene tutto. Certi titoli di mostre suonano meglio con Gelitin, altre con Gelatin.
F.R.: Il fatto è che si fanno degli esperimenti e poi si inciampa in qualcosa. Una volta in Corea del Sud per una mostra siamo incappati in un inciampo: abbiamo fatto fare un timbro con «Gelatin» scritto in coreano e loro hanno detto: «Ah, Gelitin», ma noi abbiamo pensato che lo pronunciassero solo male. Invece lo hanno proprio inciso così nel timbro e quindi siamo inciampati su quel nome.
T.U.: Abbiamo pensato che era più semplice cambiare il nome che fare un nuovo timbro.
F.R.: Buttare via il timbro sarebbe stato un peccato. Comunque quella cosa ha prodotto un gran macello, perché arrivavano persone nella galleria e chiedevano se i lavori firmati Gelatin dovessero essere rifirmati. Un casino incredibile, per una sola lettera.
T.U.: Anche Gelìntin può essere ok, scriva quel che vuole.
Facciamo salomonicamente «Gelitin/Gelatin»?
W.G.: Si può, lo faccia.
Restiamo nelle definizioni. C’è chi vi descrive come gruppo, chi come collettivo. Voi come vi vedete?
F.R.: No «collettivo», siamo un organismo. Non siamo artisti individuali che si mettono insieme, singolarmente non siamo artisti, nessuno di noi fa cose da solo. Anche «gruppo di artisti» è pessimo, è come definire i Wiener Philharmoniker un gruppo di musicisti, perché invece sono un’orchestra: negli anni hanno sviluppato un linguaggio e un’estetica in comune. E anche per noi è un po’ così.
Il vostro intento è prendere in giro, sorridere, deridere, provocare, irritare?
T.U.: L’irritazione è un buon elemento di base.
W.G.: Idealmente però l’irritazione è un’intenzione, non è un metodo: non puoi voler irritare e provocare per forza, perché non funziona.
F.R.: Non è che cerchiamo qualcosa a tutti i costi, facciamo solo cose che vogliamo e questo di solito è già sufficiente per suscitare irritazione. E non ci interessa deridere.
T.U.: E nemmeno provocare.
W.G.: E non facciamo arte per piacere, le nostre opere sono asserzioni.
T.U.: Facciamo cose che vorremmo vedere.
Vi considerate artisti austriaci?
T.U.: Non ci vediamo inseriti in un contesto nazionale.
F.R.: Come artisti siamo nati all’estero, alla metà degli anni Novanta, partecipando a mostre internazionali per esempio a New York. Gli austriaci hanno cominciato ad accorgersi di noi quando siamo tornati a Vienna tre o quattro anni dopo, per cui alla fine degli anni Novanta c’era più gente a New York che sapeva chi eravamo, piuttosto che in Austria. Per molto tempo qui non siamo esistiti.
La vostra enorme fetta di pizza con dei buchi per infilarsi dentro, che avete esposto a Chicago nel 2023, era una sorta di «One Minute Sculpture»? Avete un’affinità elettiva con Erwin Wurm?
W.G.: Noi non diamo istruzioni su che cosa si debba fare con quei buchi nella pizza, l’opera viene attivata dal pubblico come vuole.
Fate tutto da soli? Molti artisti affermati hanno stuoli di persone che fanno il lavoro sporco, e qualche volta anche quello pulito.
T.U.: In passato avevamo gente che lavorava per noi. Ma poi ci siamo accorti che quello che ci piace davvero non lo facevamo più.
W.G.: Fare tutto da soli ci dà una gran gioia, finché riusciamo a stare su una scaletta... (ride)
Il vostro prossimo progetto?
T.U.: Realizziamo una scultura per il cortile di un carcere nella Norvegia settentrionale. Sarà una barca, perché là le barche sono un elemento molto importante, ma i detenuti vedono ormai solo il cortile. Abbiamo parlato tanto con la gente del luogo e ogni volta che nominavano la parola barca sorridevano. L’idea è che ognuno di noi naviga attraverso la propria vita ed è responsabile della traversata, e una barca ha anche un che di libertà. Verrà inaugurata probabilmente alla fine della prossima estate. La città è Tromsø, con la «o» con la righetta. Come Geløtin (ridono).