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Jacopo Bedussi
Leggi i suoi articoliNegli ultimi anni, Helmut Lang è diventato qualcosa di molto diverso da ciò che il suo lavoro aveva inizialmente messo in circolo. Il suo nome funziona oggi come un segno autonomo, slegato da un metodo, da un processo, da una temporalità. È un nome che circola sotto forma di oggetti (capi vintage, archive pieces, immagini ricorrenti) e che viene spesso attivato come garanzia simbolica: di rigore, di intelligenza, di «serietà». In questo passaggio, la figura di Lang è stata progressivamente stabilizzata, resa riconoscibile, inoffensiva. Santificata.
È in questo contesto che un’intervista a Helmut Lang diventa un documento importante e forse necessario per chiunque abbia a cuore lo stato della moda oggi. Non perché «riveli» qualcosa, ma perché rimette in tensione uno status quo a cui sembra sempre più difficile immaginare alternative. Le sue risposte non cercano di correggere il modo in cui il suo lavoro è stato assimilato; semplicemente continuano a operare secondo una logica che non coincide con quella del sistema che lo ha canonizzato.
Intervistare Helmut Lang oggi significa misurarsi con un regime di parola diverso da quello che struttura abitualmente il discorso sulla moda. Non tanto per la rarità dell’evento (Lang concede pochissime interviste), quanto per la natura delle risposte. Non c’è volontà di chiarimento retrospettivo, né interesse a stabilire genealogie, rivendicare primati o riorganizzare il passato in una forma coerente. Le sue risposte non costruiscono una narrazione; al contrario, mantengono il lavoro in una condizione di preziosa, aperta, indeterminazione.
Quando hai iniziato, che cosa rappresentava per te la moda?
Un’occupazione accidentale per sopravvivere, o come dissi nel 1994: «Ich bin nur zufällig hier. Meine Kleidung ist mitgekommen, ohne mich zu fragen». [«Sono qui solo per caso. I vestiti sono venuti con me senza chiedermelo»].
Perché hai scelto di fare le cose in modi completamente esterni allo status quo della moda? E come sei riuscito a farlo?
Ero semplicemente me stesso e portavo avanti una visione o un’idea, mettendomi in discussione in modo implacabile finché non trovavo una risposta con cui potessi convivere. Non ero consapevole dell’esistenza di regole da seguire in qualunque pratica artistica. Ero piuttosto concentrato sul trovare la mia voce personale nei diversi mezzi attraverso cui volevo esprimerla. Non essere privilegiato, trovarmi in una condizione economica molto fragile e nel posto sbagliato dal punto di vista geografico è stato probabilmente, col senno di poi, un vantaggio, così come per forza di cose lavorare dovendo ridurre il più possibile.
Identificare e ridefinire l’intersezione tra moda e cultura è stato un processo che ha definito il tuo lavoro e la tua estetica. Che cosa cercavi in quello spazio quando hai iniziato a esplorarlo?
Non lo stavo cercando in modo specifico; è semplicemente il modo in cui funziona la mia mente, in qualsiasi ambito. A posteriori tutto appare molto pensato. Non è successo in quel modo: è successo attraverso il processo del lavoro. L’obiettivo era fare un buon lavoro, qualcosa che si potesse consegnare al pubblico senza rimorsi.
Quando guardo il tuo lavoro nella moda, ho l’impressione di entrare in uno spazio in cui il mistero e il non rifinito erano codici pensati per provocare una reazione nello spettatore. Oggi la moda sembra invece sigillare le proprie proposte affinché vengano consumate esattamente come sono state concepite, senza lasciare spazio all’interpretazione. Da dove nasce questa paura dell’incomprensione e come ha trasformato quello che un tempo era uno spazio creativo condiviso in qualcosa da proteggere?
Per me, una volta che il lavoro viene consegnato al pubblico, inizia ad avere molte vite. Trovo interessante, importante e stimolante non avere il controllo su come viene usato dal singolo soggetto. Non miravo a uniformare il gusto o lo spazio creativo. La percezione di molti ha aperto interpretazioni diverse a cui non avevo mai pensato. Soprattutto, allora come ora, si tratta prima di tutto dell’aspetto creativo; il lavoro troverà il suo pubblico. Per quanto riguarda ciò che accade oggi in generale, tutto oggi è dominato dalle corporation, e questo ha delle conseguenze.
Che cosa manca oggi alla moda? E quali opportunità offre quest’assenza a chi vuole spingere i confini del sistema?
Non credo sia mio compito giudicare o irridere una pratica che non esercito più, ma che il coraggio, la pazienza, l’autenticità e la consapevolezza di una produzione significativa e il riconoscimento pubblico sono il risultato di un lavoro estremamente duro, implacabile, fatto di ripetizioni e fallimenti, sono sempre cose da tenere a mente.
Copertina dell’edizione internazionale di «Herald Tribune», 2 luglio 1996
Metodo contro merce: Helmut Lang, il feticismo e la mostra come dispositivo critico
Anche a partire dalle risposte di Lang, asciutte, non concilianti, ostinatamente refrattarie alla costruzione di una propria mitologia, «Séance de Travail 1986-2005. Excerpts from the Mak Helmut Lang Archive», la mostra in corso al Mak di Vienna fino al 3 maggio 2026, può essere usata come lente critica. L’assenza quasi totale di capi non è una scelta provocatoria, ma una presa di posizione teorica: sottrarre Helmut Lang alla logica del possesso.
In un momento in cui il suo nome funziona come segno autonomo, scambiato e quotato sul mercato secondario, la mostra rifiuta di partecipare alla trasformazione della moda in bene-rifugio. Non propone oggetti da desiderare, ma processi da attraversare; non capitale simbolico da immobilizzare, ma pensiero da indagare e comprendere.
Questa lettura del lavoro di Lang e della mostra si è rafforzata per me anche attraverso l’esperienza diretta su forum o canali social tematici dedicati alla moda cosiddetta «di nicchia». Conversazione nella quale il tema centrale era la quotazione di mercato di questo o quel capo indossato da questa o quella celebrity, la rarità, la possibilità di rivendere. Vedere come questa logica di accumulo domini il discorso intorno al nome di Lang rende evidente quanto il mercato e il feticismo della merce siano in contraddizione con ciò che la mostra e l’intervista suggeriscono: il lavoro di Lang esiste nella sua complessità e nel suo metodo e non esiste singolo oggetto magico che incarni la trasfigurazione del banale operata dall’autore.
Da qui nasce la riflessione sul collezionismo, sull’accumulo speculativo, sull’ossessione per il possesso dei capi Helmut Lang. L’idea che il metodo, il pensiero e la ricerca possano essere incorporati materialmente attraverso il possesso di un oggetto è non solo ingenua, ma opposta alla sua pratica: accumulazione scambiata per conoscenza. Questo fraintendimento è reso possibile da un più ampio tentativo dei gruppi del lusso di trasformare la moda in asset finanziario. Tentativo che, pur senza riuscire mai davvero a stabilizzare la moda come bene-rifugio (per ragioni che sono intrinseche alla moda come disciplina e che riguardano l’essenziale transitorietà dei codici e del gusto), produce un effetto preciso: più l’oggetto viene caricato di valore economico e simbolico, più il pensiero che lo ha generato si sclerotizza, diventando simulacro.
«Séance de Travail 1986-2005. Excerpts from the Mak Helmut Lang Archive» si oppone a questa chiusura. Non chiede consumo, ma attenzione, e ricorda, come Lang stesso sottolinea con cautela, che una produzione significativa non è il risultato di un’intuizione fulminea, ma di un lavoro implacabile, fatto di tentativi, ripetizioni e fallimenti.
Alla fine, ciò che emerge non è una posizione sulla moda, ma una posizione sul valore. In un presente dominato dall’accumulo, Helmut Lang non è un modello da replicare né un patrimonio da collezionare, ma una frizione da mantenere attiva, una tensione da preservare. La sua pratica diventa così un invito a privilegiare il metodo sul possesso, il pensiero sull’oggetto, la riflessione sul feticcio.
Una veduta della mostra «Séance de Travail 1986-2005. Excerpts from the Mak Helmut Lang Archive» al Mak di Vienna
Una veduta della mostra «Séance de Travail 1986-2005. Excerpts from the Mak Helmut Lang Archive» al Mak di Vienna