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«The Punching Machine» (1918) di di Fernand Léger

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«The Punching Machine» (1918) di di Fernand Léger

LA BIENNALE CHE SARÀ | In Capsule: Le seduzioni del cyborg

Le macchine, (non più) celibi, sono il nostro doppio, lo specchio del desiderio di guardare noi stessi. Un’analisi della contaminazione tra corpo e macchina alle avanguardie alla filmografia contemporanea

Alessandro Amaducci

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BIENNALE IN CAPSULE:
La culla della strega
La tecnologia dell’Incanto
Corpo Orbita
Le seduzioni del cyborg

«Tutto è una copia, di una copia, di una copia...» dice il protagonista del romanzo «Fight Club» (1996)di Chuck Palahniuk, e dell’omonimo film di David Fincher del 1999,di fronte a una fotocopiatrice, per descrivere il suo stato a metà fra il sonno e la veglia, non ancora consapevole di aver generato il suo doppio, Tyler Durden.

Forse tutto è iniziato da una semplice domanda: chi è quella figura che io vedo sulle acque di uno stagno o sulla superficie di uno specchio: il riflesso di me, o io sono il mio doppio? E ancora: quella figura, una volta che io volgo lo sguardo, può avere vita propria, o diventare un oggetto, in modo tale che io la possa vedere da tutti i punti di vista possibili? Quanto desiderio di sé in tutte queste domande.

L’occhio non basta: serve una tecnologia che lo potenzi. Oppure, avventurarsi in un radicale «assalto al cielo»: arrogarsi il diritto di poter creare artificialmente un corpo, togliendo questa prerogativa a qualsiasi divinità e all’ordine del ciclo naturale. Gli alchimisti adottano la tecnologia della chimica, intrisa di sapienza esoterica, per creare l’homunculus. Molta letteratura si impegna a demonizzare questa sfida blasfema, rassicurando il lettore: il Golem e Frankenstein sono solo esperimenti falliti. Il caos della tracotanza umana non può inventarsi «nuove vite» in grado magari di sconfiggere il limite della morte, ma solo mostri incontrollabili.

Eppure, nel frattempo molte copie di noi si sono diffuse in maniera innocua: statue, bambole, soldatini. Oggetti in un primo tempo impossibilitati al movimento, poi sempre più articolati: burattini, marionette. Un oggetto che riproduce un corpo, dal momento in cui si muove, è vivo? Gli adulti ci rassicurano dicendo che no: si tratta solo di bambole. Eppure quanti di noi non hanno pensato, almeno una volta nella vita, che quegli oggetti potessero avere vita propria, magari di notte, quando dormiamo o sogniamo, creando un mondo parallelo candidamente rappresentato da John Lasseter nel suo film in animazione digitale del 1995 «Toy Story (Toy Story – Il mondo dei giocattoli)» o da Robert Longo, con le sue fotografie di action-figure immortalate come fossero congelate nell’istante di un movimento? Nel Settecento le marionette cominciano a muoversi senza essere manovrate da una mano umana: sono robot che scrivono, disegnano. Giocattoli potenziati dalla tecnologia del tempo (gli orologi), ma finalmente autonomi nel movimento.

Le macchine ci affascinano, perché assomigliano a noi: sono il nostro doppio, sono lo specchio del desiderio di guardare noi stessi. Le avanguardie artistiche flirtano costantemente con le macchine giocando con il loro desiderio, come in Marcel Duchamp, o trasformandole in maniera esplicita in feticci, come in Hans Bellmer. Da un lato nasce la suggestione del potenziamento: il corpo contaminato con la macchina, in un rapporto di erotica prossimità fra carne e protesi. Dall’artista Bauhaus Oskar Schlemmer a Rebecca Horn, al performer Stelarc, al coreografo Philippe Découfle al teatro macchinico di Marcel·lí Antúnez Roca è, non a caso, il mondo legato alla danza e alla performance-art a esplorare un tema suggestivo: se la macchina può articolarsi come un corpo umano, essa può diventare una protesi creativa per il corpo stesso. Un iper-corpo.

L’altra strada percorsa dalle avanguardie storiche è un rovesciamento radicale di prospettiva. Il pittore Fernand Léger e il regista Dudley Murphy realizzano nel 1924 il cortometraggio «Ballet mécanique», dove il riferimento alla danza è un pretesto per immaginare un mondo popolato da macchine che si muovono ritmicamente, ed eroticamente, come corpi umani, e da frammenti del corpo desiderante di Kiki de Montparnasse, in un «gioco a due» dove la dimensione organica e quella artificiale si miscelano totalmente. Fritz Lang in «Metropolis» (1927) rappresenta un robot femminile che si trasforma nella copia perfetta del personaggio di Maria: la «falsa Maria» che, esibendosi in uno spettacolo di danza dove la sua sensualità è potenziata in maniera parossistica, obbliga il pubblico maschile a esternare in maniera quasi primitiva solo due emozioni: il desiderio e l’adorazione. Se la macchine e il corpo non sono più distinguibili, e se il desiderio espresso dalla macchina può avere effetti così sconvolgenti, si può affermare che il corpo è una macchina?

Ma si tratta ancora di macchine celibi: desiderano ma non si possono riprodurre. A disintegrare quest’ultimo tabù ci pensa l’artista svizzero Hans Giger, che ipotizza l’esistenza di corpi biomeccanici: dove la carne e il metallo convivono in perfetta simbiosi. Queste creature sono mostruosamente belle, e si esibiscono in amplessi che diventano fantasiose danze, attraverso una esplicita ossessione orale, una pratica sessuale non riproduttiva ma legata al piacere.

Nel film «Alien» (1979) Ridley Scott concede al desiderio della macchina un inaspettato balzo in avanti. L’organismo alieno feconda il corpo umano inserendo, attraverso la bocca, appunto, delle uova nello stomaco. La creatura nasce lacerando lo stomaco del corpo che la ospitava, attestando la sua supremazia, la creatura annienta il corpo «gestante», e al contempo azzerando una regola di genere del mondo dei mammiferi: nel film chi «partorisce» è un uomo, quindi qualsiasi corpo può diventare un «gestante».

La macchina non è più celibe: si riproduce. In maniera violenta, certo: in «Tetsuo» (1989) di Shin’ya Tsukamoto fra la carne e il metallo si accende una guerra furibonda; in «Titane» (2021) di Julia Ducournau, la nascita della nuova creatura con la spina dorsale fatta di titanio uccide la protagonista. Eppure tutti questi ibridi esprimono una controversa bellezza, sono avvolti da un’aura poetica, se non addirittura tragica, come nel caso dei dolenti androidi di «Blade Runner» (1982) di Ridley Scott (da un racconto di Philip K. Dick), che pretendono dai loro creatori un semplice diritto: quello di poter vivere.
Nel frattempo si affaccia un nuovo mondo tecnologico dove la contaminazione fra naturale e artificiale assume spesso un altro segno. Nam June Paik invoca l’«umanizzazione della tecnologia», una sorta di recupero dell’approccio positivo che le avanguardie storiche avevano nei confronti della macchina, presentando videoinstallazioni dove i monitor costruiscono rassicuranti figure robotiche, antropomorfe.

Molta animazione digitale, videoarte e New Media Art propone simbiosi non così drammatiche fra corpo e macchina. E se oramai siamo abituati all’ossimoro che qualcosa di artificiale possa avere un’intelligenza, perché non assecondare i suoi desideri? Il mondo digitale è un luogo creativo di per sé, un ambiente fertile che pullula di vita.

Nel film realizzato in digitale «Teknolust» (2002) di Lynn Hershman Leeson, la protagonista Rosetta Stone, bioingegnere vergine interpretata da Tilda Swinton, crea, grazie alla genetica e all’intelligenza artificiale, tre cyborgdi se stessa, le quali per sopravvivere hanno bisogno di iniezioni di sperma, sostanza che una delle cyborg di Rosetta, Ruby, una camgirl che recita versi poetici, recupera facilmente seducendo uomini su internet. La «teknolussuria» Lynn Hershman Leeson è un inno all’autonomia, alla libertà sessuale, a nuove possibilità di vita. E di desiderio.



BIENNALE DI VENEZIA
 

«Vertighost» (2017) di Lynn Hershman Leeson

«Minnie muse» (2002) di Nam June Paik

«Tetsuo» (1989) di Shin’ya Tsukamoto

Maria robot dal film «Metropolis (1927) di Fritz Lang

«Winter Lecture Series» (2016 di Marcel·lí Antúnez Roca

Dall’incipit di «Titane» (2021) di Julia Ducournau

Alessandro Amaducci, 13 aprile 2022 | © Riproduzione riservata

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