«Venere» (1926), di Achille Funi, Losanna, Musée cantonal des Beaux-Arts (particolare)

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«Venere» (1926), di Achille Funi, Losanna, Musée cantonal des Beaux-Arts (particolare)

L’arte del ventennio fu fascista?

Nel Mart 400 opere e documenti d’archivio affrontano un nodo critico della nostra storia

Si sceglie direttamente la parola che incarna un’eredità scomoda per affrontare di petto un nodo critico della nostra storia. Il titolo voluto così secco ed esplicito da Vittorio Sgarbi per «Arte e fascismo», la mostra al Mart-Museo di arte moderna e contemporanea di Rovereto e Trento dal 14 aprile al primo settembre e a cura di Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari, promette di andare dritto al suo obiettivo: circa 400 tra opere (tra gli altri, Achille Funi, Mario Sironi, Mario Radice, Piero Marussig) e documenti d’archivio per «illustrare con chiarezza l’arte del ventennio nella sua complessità, spiega Beatrice Avanzi. Un’arte che non è stata propriamente di regime: durante quel periodo infatti si registra in Italia una fioritura delle arti con una ricchezza e varietà che non ci si aspetterebbe in un’epoca dittatoriale. Una produzione che, se fino agli anni ’80 era rimasta nascosta in un cono d’ombra, colpita da una vera e propria damnatio memoriae, è riemersa grazie a una serie di mostre dedicate a produzioni e movimenti artistici del ventennio, soprattutto recenti, ma dove spesso non è stata esplicitata chiaramente la relazione con il fascismo». 

Al Mart, nel 2003, partita dal Moore Institute di Leeds (Inghilterra), «Scultura lingua morta», a cura di Penelope Curtis, iniziava a sollevare un velo, esplicitando l’intenzione nel sottotitolo «Scultura nell’Italia fascista». A Firenze nel 2012 «Anni 30. Arte oltre il fascismo», a cura di Antonello Negri, dichiarava una linea di
demarcazione. A Forlì, nel 2013, il previsto titolo «Dux. L’arte nell’Italia del consenso» fu sostituito con «Novecento. Arte e vita nell’Italia tra le due guerre», a cura di Fernando Mazzocca. Su «Post Zang Tumb Tuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943», realizzata alla Fondazione Prada di Milano nel 2018 a cura di Germano Celant, con un titolo che evitava di citare il fascismo, aleggiò la critica di estetizzare un periodo, senza, ed era voluto, analizzare la relazione tra gli artisti e il regime, tema caldo e scivoloso. 

«Testa di Mussolini (Profilo continuo)» (1933), di Renato Bertelli. Mart-Museo di arte moderna e contemporanea di Rovereto e Trento

«La relazione con il regime, considera la curatrice, non può essere negata o cancellata in virtù della situazione ideologica, ma va studiata e compresa come episodio della storia recente, mettendo in luce la pluralità e varietà di linguaggi che sono fioriti». Di fatto, come recita il comunicato, «il regime fascista influì sulla produzione figurativa italiana, utilizzando a fini propagandistici i linguaggi dell’arte e dell’architettura». Se nella prima sezione della mostra si dà spazio alla figura di Margherita Sarfatti, che con «Novecento» cercò di dare una definizione di arte fascista, questa posizione fu ostacolata da Mussolini stesso. «Favorevole a movimenti molto diversi tra loro, dall’Avanguardia del Futurismo al recupero della classicità di “Novecento”, dal Razionalismo all’arte astratta, continua Avanzi, Mussolini non appoggiò mai un indirizzo specifico, non orientò verso un gusto, al contrario di quanto avvenne sotto altri regimi, dal nazismo al comunismo sovietico». 

Nelle varie sezioni si affrontano i temi del rapporto altalenante del Futurismo con il fascismo, soprattutto quello di Depero, sul cui nucleo di opere il Mart affonda le sue radici, e poi dell’arte pubblica che si espresse nella pittura murale, nell’architettura e nella fondazione di nuove città, dell’istituzione di un sistema delle arti, mentre trasversalmente si legge il rapporto contraddittorio tra modernità e classicità, così come la costruzione di nuovi miti, caduti insieme alla dittatura con la guerra. 

Simbolico il confronto tra due busti di Mussolini decisamente lontani e diversi: «Dux» (1923) di Adolfo Wildt e «Profilo continuo» (1933) di Renato Bertelli. «Il primo, spiega la curatrice, riconduce alla ritrattistica imperiale romana, il secondo, che appartiene alle collezioni del Mart, offre un’interpretazione dinamica e futurista». Chissà se l’ironia faceva parte delle intenzioni degli autori. Esplicito il titolo, esplicita l’immagine della mostra, appunto Dux di Wildt: «Ma la versione che volutamente abbiamo scelto, conclude Avanzi, è quella segnata dalle picconate dei partigiani». Un’opera diventata suo malgrado testimone della complessità della relazione tra storia e arte, immagine di una mostra destinata a far discutere.

Camilla Bertoni, 12 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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