«Bologna, Via Fondazza» (1989-90) di Luigi Ghirri

© Eredi Luigi Ghirri

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«Bologna, Via Fondazza» (1989-90) di Luigi Ghirri

© Eredi Luigi Ghirri

L’atelier di Morandi visto da Luigi Ghirri

Una mostra a Palazzo Bentivoglio a Bologna esplora le analogie tra i due maestri dell’arte italiana

Nello scenario dei sotterranei di Palazzo Bentivoglio, una piccola, ma suggestiva mostra, accoglie i visitatori fino al 30 giugno. Attraverso l’obiettivo di Luigi Ghirri, in un percorso intimo e quasi confidenziale, ci immergiamo nell’«Atelier» del Maestro Giorgio Morandi, prima che venisse trasformato in un museo. Se ascoltiamo il suggerimento di Italo Calvino e «socchiudiamo gli occhi contro il bagliore e la confusione del mondo», il percorso ci conduce in un viaggio nel tempo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, quando Ghirri, su suggerimento di Carlo Zucchini, maestro elementare vicino alla famiglia Morandi, visitò e poi fotografò i luoghi dove aveva vissuto e lavorato il pittore. In particolare, mentre era nello studio in via Fondazza a Bologna, venne a conoscenza della disperazione vissuta da Morandi negli ultimi anni della sua vita quando un grande condominio giallo fu costruito di fronte alle sue finestre e alterò la luce del suo studio. Morandi risolse il problema con telai orientabili ideati per restituire adeguata luminosità ai suoi oggetti. 

L’esperienza stimolò Ghirri a riflettere nuovamente sull’arte della creazione di immagini. «Senza voler negare l’importanza della via Emilia (e del suo paesaggio) come punto di partenza dell’indagine territoriale che stava a cuore a Ghirri», racconta Tommaso Pasquali, che per la mostra ha scritto il testo introduttivo. «Trovo che non sia corretto ridurre le analogie formali tra Ghirri e Morandi a un comune retroterra locale o localistico. Tanto la traiettoria impareggiabile di Morandi pittore quanto le ricerche sull’immagine di Ghirri parlano un linguaggio senza inflessioni provinciali e hanno ricadute enormemente più vaste dei luoghi abitati dai due artisti. Semplicemente, fra i riferimenti di Ghirri, Morandi c'era sempre stato, e il lavoro approdato in “Atelier Morandi” è in questo senso un punto di arrivo molto coerente. L’affinità nasceva da un modo simile di ragionare sulla forma e, in particolare, da una comune genealogia artistica che prescinde decisamente dalla dimensione territoriale: in entrambi, dichiaratamente, il senso della luce, dello spazio e della composizione ha a che vedere con quella che Roberto Longhi chiamava la “sintesi prospettica di forma e colore” di Piero della Francesca, che discende poi a Beato Angelico, fra gli altri e che passa alla contemporaneità attraverso la lezione di Cézanne». 

L’interessante installazione, curata da Davide Trabucco, abbraccia un approccio ecologico e riutilizza i materiali dell’allestimento precedente. Questa scelta riflette una prospettiva artistica che non teme di sfidare l’incessante bisogno di novità, trovando piuttosto nell’atto della ripetizione una fonte di ispirazione e di rinnovamento. Camminando sui feltri che riflettono la disposizione originale degli oggetti e delle superfici morandiane, i colori oro e azzurro dominano la scena. Le fotografie di Ghirri, esposte su elementi modulari di legno sbiancato e posizionate con precisione dove Morandi aveva disposto gli oggetti nel suo studio, rivelano dettagli come barattoli opaline e mazzetti di fiori di carta, insieme a uno straccio logoro su un cavalletto. Come scrisse lo scrittore Gianni Celati, uno dei suoi più fedeli compagni di viaggio che ritroviamo anche tra le testimonianze nel video alla fine del percorso, diretto da Maurizio Magri e Paolo Comastri, «fotografava cose a cui nessuno bada. Per Luigi la foto doveva ridare dignità alle cose, doveva sottrarle agli schemi, ai giudizi sbrigativi di chi non guarda mai niente».

Rischa Paterlini, 20 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

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L’atelier di Morandi visto da Luigi Ghirri | Rischa Paterlini

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