Guido Guidi, «#1-7. Fosso Ghiaia», 1972

© Guido Guidi

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Guido Guidi, «#1-7. Fosso Ghiaia», 1972

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L’eco del paesaggio al MaXXI: Guido Guidi e Alex Da Corte

Mentre Luigi Ghirri offre il calcio d’inizio a «The Large Glass», lettura firmata dall’artista statunitense Da Corte di alcune opere della collezione permanente del museo, la mostra di Guidi apre un piano sequenza lungo quasi sessant’anni di carriera. E dal blu profondo al bianco flash, i panorami si mescolano

Se Roma è la città degli echi, è impossibile non intravedervi, sempre, un’eco del paesaggio italiano. Sotto un cielo da caput mundi albergano la nostra storia e la sua poesia, in un quid che spesso solo i grandi sguardi riescono a trasporre in dispositivi di senso: immagini, musica, opere.

Decisamente curiose, speculari tra loro, «The Large Glass» (fino al 25 ottobre 2026) e la retrospettiva dedicata al fotografo Guido Guidi, «Col tempo 1956-2024» (fino al 20 aprile 2025) al MaXXI-Museo delle Arti del XXI secolo, si pongono come il compendio visivo più vicino all’idea sfuggente e perennemente mutevole di paesaggio.

E quasi non sembra un caso che ad aprire il riallestimento di una parte della collezione permanente del MaXXI, firmato dall’artista venezuelano-statunitense Alex Da Corte (New Jersey, 1980), sia una fotografia di un italiano che con Guidi ha condiviso innumerevoli peregrinazioni tra paesaggi «minimi», dando agli scatti tutto l’assoluto dello sguardo: Luigi Ghirri (1943-92).

Inizia infatti con «Modena»,1978, l’attraversamento di Da Corte tra la collezione del museo, un piccolo assaggio in cui «The Large Glass» passa attraverso diversi paesaggi racchiusi in un galleria che, completamente blu per l’occasione, diventa a sua volta un filtro di visione. «Non ci sono esseri umani in questa immagine, eppure essa contiene l’umanità intera e lo spazio intangibile che ci separa», scrive l’artista rispetto alla foto di Ghirri nel testo che accompagna la selezione delle opere in mostra, dedicando particolare attenzione a questa piccola icona che mette in luce l’immagine del volto di una donna «sottovetro, o smalto, o acqua, o niente», a cui è associata una bombetta rovesciata. Come in un gioco di specchi (o di vetri), lo stesso cappello si ritrova incastrato, reale, in una stretta fessura architettonica esterna al museo, visibile dalla lunga vetrata che a sua volta conferisce alla galleria 4 un’aura metafisica. È o non è un’opera? Certamente un compendio per rendere l’invisibile reale, una traccia-fantasma.

Eppure, come dichiarava Walter De Maria all'inizio degli anni ’70, «Esprimere se stessi con eccessiva enfasi o romanticismo rischia di essere un modo per imporre agli altri più contenuto del necessario», e «The Large Glass» sembra seguire questa pista.

 

Nonostante il risaltare della natura, dell'organico e del fenomenologico (dai «Fire Tires», 2010, di Gal Weinstein, nato nel 1970, grandi colonne di fumo in cera e fibra sintetica che fuoriescono da pneumatici bruciati, alla splendida sala dedicata a «Sculture di linfa», 2007, di Giuseppe Penone, opera con la quale all’epoca l’artista, oggi settantottenne, rappresentò l’Italia alla Biennale di Venezia, insieme a Francesco Vezzoli e con la curatela di Ida Gianelli), «The Large Glass» mantiene un appeal silenzioso, rarefatto; è un prisma di trasformazione, accecati dalla luce gialla in cui ci immerge Massimo Bartolini (1962) con la sua «Mixing Parfums», 2010, una porta girevole collocata in una struttura casa molto basica, che apre a un altro mondo dove l’unica certezza, continua Da Corte, è che «il nostro grande oceano blu, benché immenso e misterioso, è la sola cosa sulla quale saremo sempre d’accordo», chiudendo un percorso che avremmo voluto ben più esteso di questo breve passaggio.

Speculare, come detto, è il percorso dedicato a quasi sessant'anni di carriera e di ricerca sul paesaggio di Guido Guidi (1941), a cura di Pippo Ciorra, Simona Antonacci e Antonello Frongia. Una esplorazione che parte da un punto di vista inusuale, ovvero quello dello stesso studio dell’artista alle porte di Cesena, e che avvolge lo spazio in un labirinto di paesaggi dove il linguaggio fotografico e l’atto del vedere hanno la meglio sull’estetica, situando lo sguardo di Guidi in una prospettiva assolutamente differente da quella dei colleghi Ghirri, Vaccari o Basilico che, negli stessi anni di fermento, i Settanta e gli Ottanta, avevano a loro volta lavorato (anche) su «piccoli» viaggi e panorami «ordinari», attraversando in lungo e in largo le strade di Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna, catturando le vestigia di un passato rurale che stava sgretolandosi sotto lo sguardo onnipotente di un Paese all’epoca ancora in crescita. 

Attraverso 38 sequenze fotografiche costruite dallo stesso Guidi, si scoprono dettagli del paesaggio costruito, analogie tra immagini scattate dallo stesso punto di vista con condizioni di luce minimamente differente, gli omaggi alle architetture di Carlo Scarpa, Le Corbusier, Álvaro Siza catturate «cercando di entrare nel processo mentale dell’architetto», dichiara Guidi, anche se alla fine sono le opere dei Maestri a entrare nel paesaggio del fotografo, e non viceversa. 
E poi le documentazioni di altri paesaggi: Guimarães, in Portogallo, e Ayaş, in Turchia, ma anche Chioggia e Fiume, i dintorni di Cesena, sempre, la Spagna e Porto Marghera, Rimini e Gibellina.

Il tutto toccato con la voce cruda del realismo, già che, secondo Guidi, «il fotografo non ha idee, deve adattarsi a quello che c’è», ma con la capacità ineffabile di dare un corpo poetico alla rinuncia di quegli stilemi e di quei sistemi tecnologici che, probabilmente, avrebbero trascinato le sue immagini oltre quel «contenuto» strettamente necessario.

Matteo Bergamini, 20 gennaio 2025 | © Riproduzione riservata

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