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Come affrontare l’arte di Giorgio de Chirico (1888-1978), dopo innumerevoli mostre e un numero difficilmente calcolabile di studi, senza ripercorrere vie già battute? E come farlo nella stessa sede in cui nel 1970, lui vivente, si tenne la storica monografica curata da Franco Russoli, lo studioso che volle portare l’arte del XX secolo nelle sale della Pinacoteca di Brera? Lo chiediamo a Luca Massimo Barbero, che ha accettato la sfida di curare il nuovo omaggio dedicato all’artista da Palazzo Reale di Milano, ponendosi l’obiettivo di offrirne una lettura nuova, libera dai condizionamenti creati dall’ombra da sempre gettata dal «personaggio de Chirico» sull’artista (grandissimo) che è stato. Intitolata semplicemente «de Chirico», la retrospettiva (promossa e prodotta da Milano-Cultura, Palazzo Reale, Marsilio ed Electa, editori questi ultimi anche del catalogo), dal 25 settembre al 19 gennaio riunisce poco meno di 100 suoi capolavori, divisi in otto sezioni tematiche (dalla «Mitologia familiare» alla «Neometafisica»), giunti qui da musei del mondo intero. Numerose le opere mai viste in Italia e altre, come la grandiosa «Arianna» (1913) del Metropolitan di New York, mai uscite prima dal loro museo. In mostra si susseguono dunque opere miliari del percorso di de Chirico, dalla Tate Modern di Londra, dal Pompidou e dal Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, dalla Menil Collection di Houston e dal Mac di San Paolo del Brasile, cui si aggiungono dipinti delle più importanti collezioni pubbliche e private italiane. Immagine-guida della mostra è il «Figliol prodigo» (1922) del Museo del Novecento di Milano: lo stesso che compariva sulla copertina del catalogo della mostra del 1970, di cui l’attuale si propone come l’erede ideale. Ne parliamo con il curatore.
Professor Barbero, quale obiettivo si è preposto nel comporre questa mostra di de Chirico?
Volevo innanzitutto che si potesse dimenticare la fama che da sempre lo precede, e che i visitatori fossero indotti a conoscere de Chirico per quel genio che è stato, senza preconcetti. Insomma, intendevo farlo «dimenticare a memoria», come amo dire, parafrasando Vincenzo Agnetti.
Come ha proceduto?
Ho costruito una mostra molto «visiva», in cui chiedo al pubblico di rallentare la visione e di sprofondare gli occhi nella pittura di de Chirico, da un lato penetrando in quel suo «altrove» costruito con prospettive distorte, e illuminato da una luce siderea, innaturale, che esclude ogni forma di vita se non quella delle divinità; dall’altro esplorando la sua materia pittorica arida, già diversa da tutti prima ancora che con il suo manuale (Piccolo trattato di tecnica pittorica, Scheiwiller, 1928, Ndr), de Chirico diventasse un teorico della pittura. Per farlo, ho costruito un percorso «a togliere», con opere scelte una per una per consentire questa lettura.
Dunque ha tralasciato la filologia?
Certo che no, ma credo che occorra un nuovo sguardo. Tutti noi abbiamo un’idea della personalità di de Chirico che finisce per sopraffarlo: quella di un uomo borioso, caustico, tagliente. Invece sotto questi comportamenti c’è un’estetica raffinata che scaturisce da una cultura vasta e internazionale e un’inesauribile ironia. De Chirico, figlio di una genovese e di un fiorentino, nato in una Grecia che era allora protettorato tedesco, passato per l’Italia dopo la morte precoce del padre, formato a Monaco di Baviera quando la città era «la nuova Atene», antagonista culturale e artistica di Parigi, poi giunto proprio nella Parigi delle avanguardie, è stato l’espressione ante litteram di una cultura globale. Il che lo portò a porsi sempre «fuori dal coro». Se poi aggiungiamo la personalità saturnina, si spiega la ragione per cui de Chirico seppe creare quei mondi paralleli, fuori dal tempo e dal suo tempo, che a Parigi gli guadagnarono l’ammirazione di Picasso e poi dei surrealisti, ma che in Italia gli causarono un feroce ostracismo.
Come e perché accadde?
Fu Roberto Longhi, allora giovanissimo e in cerca di fama, a scagliarsi contro de Chirico nella celebre stroncatura, intitolata «Al dio ortopedico», alla sua mostra romana del 1919 da Bragaglia. Lo scelse proprio perché lui era l’artista italiano più famoso all’estero e, diventato poi a sua volta celebre, finì per decretarne la sfortuna critica in patria.
A quale pubblico dedica, soprattutto, la sua mostra?
Alle nuove generazioni, perché lui, che attingeva alla cultura classica come a Fantomas, a Poussin come ai film popolari, ha creato un nuovo linguaggio con cui, da allora in poi, chiunque si agitasse nelle acque dell’arte non avrebbe potuto non confrontarsi. Per citare solo alcuni nomi, Warhol lo ammirava per la ripetizione dei suoi soggetti, Giulio Paolini gli rese omaggio in una celebre performance del 1969 con lo striscione su cui era stampato il motto «Et quid amabo nisi quod aenigma est» che figura nell’autoritratto del 1911 (in mostra), e Cindy Sherman si è ispirata ai suoi innumerevoli travestimenti degli autoritratti. De Chirico è stato sempre un «elephant in the room».
È certo al corrente dei contrasti tra la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico e l’Archivio dell’Arte Metafisica. Perché ha deciso di curare una mostra che fa capo alla Fondazione?
È stata una scelta istituzionale di Palazzo Reale che per prassi dialoga con gli enti ufficialmente preposti alla tutela dei diritti e dell’autenticazione delle opere degli artisti.
Qual è la sua opinione sulla contesa fra le due parti?
La mostra di Milano presenta opere non solo insindacabili ma pietre miliari della pittura del grande metafisico. La contesa supera il valore dei singoli e qualificati studiosi che ne sono coinvolti ed è da risolversi nei luoghi preposti. Personalmente ritengo che anche le varie e note vicende facciano parte di un aspetto della storia colma di contraddizioni, provocazioni e polemiche che ha sempre fatto parte dell’aura del personaggio de Chirico. Anche in questo il mito del grande pittore continua.

«Ritorno al castello», 1969, di Giorgio de Chirico (particolare). Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea © G. de Chirico by SIAE 2019