Era il 1940 quando Pablo Picasso (Malaga, 1881-Mougins, 1973), spagnolo ma a Parigi sin dal 1900, chiese la naturalizzazione in Francia. Gli fu negata. Eppure era un artista acclamato e ricchissimo. Perché accadde? Perché quando, a 19 anni, era arrivato a Parigi da Barcellona, era stato schedato dalla polizia francese come persona sospetta, in quanto «straniero, anarchico e artista d’avanguardia»: 74.664 il suo numero sui registri della polizia. Nessuno sinora aveva mai sospettato che questo gigante dell’arte del XX secolo, idolatrato da intellettuali e grande pubblico, avesse vissuto per decenni la condizione precaria dello straniero mal sopportato e sorvegliato da un apparato sospettoso e xenofobo. Ci voleva lo sguardo trasversale di Annie Cohen-Solal, storica dell’arte con una solida formazione nelle scienze sociali, per scoprire questa dimensione dolorosa della sua vita, a dispetto della quale Picasso seppe però continuare a vivere e creare in Francia fino alla morte.
Due mostre complementari, «Picasso a Palazzo Te. Poesia e salvezza», prodotta da Fondazione Palazzo Te con il Musée National Picasso-Paris-Mnpp e la famiglia dell’artista, che si apre dal 5 settembre al 6 gennaio 2025 nel Palazzo Te di Mantova, e «Picasso lo straniero», dal 20 settembre al 2 febbraio 2025 nel Palazzo Reale di Milano, prodotta con Marsilio Arte (editore anche dei due cataloghi) e realizzata con il Mnpp, il Musée National de l’Histoire de l’Immigration e il Musée Magnelli-Musée de la Céramique (Vallauris), entrambe ideate e curate da Annie Cohen-Solal (la seconda con Cécile Debray), affrontano per la prima volta questo aspetto mai esplorato della vita di Picasso.
Ne parliamo con Annie Cohen-Solal, autrice anche del libro da cui tutto è scaturito, Picasso. Una vita da straniero.
Professoressa Cohen-Solal, di Picasso è sempre circolata l’immagine di un artista di grandissimo successo, prima nella cerchia degli intellettuali più raffinati di Parigi, poi anche sul mercato e fra il grande pubblico. Lei ce ne offre una del tutto diversa. Com’è iniziata la sua ricerca?
Per caso. Il 15 dicembre 2014 l’allora presidente Hollande apriva ufficialmente il Musée de l’Histoire de l’Immigration (già, scandalosamente, Palais des Colonies dal 1931). In quell’occasione feci incontrare Laurent Le Bon, allora direttore del Musée National Picasso, e Benjamin Stora, grande storico dell’immigrazione, che viene dall’Algeria, dove anch’io sono nata. Di lì è scaturita questa mia testarda ricerca, che ho esteso agli archivi Picasso (dove ho trovato 4mila lettere inedite della madre, da cui emerge la vulnerabilità dell’artista) e agli archivi della polizia francese, dove ho scoperto dei dossier vergognosi su di lui, e ho iniziato a intrecciare la grande storia con elementi più sottili, più intimi. Da quei documenti appare evidente come Picasso si sentisse precario e fragile. Eppure non lo manifestò mai. Oltre che un artista grandioso, era anche un fine stratega e seppe navigare negli interstizi della società francese in anni in cui dilagava la paura per lo straniero: fu preso di mira da tale Emile Chevalier, un poliziotto di terz’ordine, cacciatore di ebrei e di massoni e pittore fallito, fu additato come anarchico e fu osteggiato anche dagli accademici perché artista d’avanguardia. Era celeberrimo ovunque, ma in Francia rimase lungamente invisibile, tanto che fino al 1946 nei musei francesi c’erano solo due sue opere, mediocri. Così nel 1955 lasciò Parigi, andò al Sud e scelse di stare non fra gli accademici ma fra gli artigiani della ceramica, rifiutati come lui (e reinventò quel genere artistico), mentre guardava al Mediterraneo, il suo mondo.
Pensando alla mostra di Palazzo Te, in che modo la poesia diventa per lui occasione di consolazione?
Tutto parte dalle illustrazioni di Picasso per le Metamorfosi di Ovidio realizzate per Albert Skira nel 1931. Per Picasso il cambiamento era una strategia di sopravvivenza: il suo primo doppelgänger («sosia») fu l’Arlecchino della Commedia dell’Arte, il secondo, il Minotauro. Né si può dimenticare che a Parigi, nel 1901, Picasso fu accolto da un generoso gruppetto di poeti allora marginali e che la poesia lo salvò nel 1935, nel momento della sua crisi personale e creativa più dura, quando lui, che all’inizio non conosceva la lingua, diventò un poeta e drammaturgo francese. Qui, 50 opere (molte inedite) raccontano questo suo aspetto, in risonanza con le storie delle «Metamorfosi» affrescate da Giulio Romano.
Come ha scelto, invece, le opere per la mostra di Milano?
A Milano si parte da «Morte di Casagemas», dove Picasso evoca la tragedia da lui vissuta all’arrivo a Parigi, e si prosegue con 80 altre opere fondamentali (con un’intera sala su Gósol, il paesino dei Pirenei da cui scaturì il Cubismo), cui si aggiungono documenti, voci, musica, film: è una mostra costruita come un’opera lirica; una mostra esistenziale, di sorpresa e di scoperta, pensata per cambiare chi la visita.