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Giulia Grimaldi
Leggi i suoi articoliUn dipinto a olio blocca il tempo e ci porta nell’attimo prima che una fotografia si scarichi del tutto sul cellulare. In quell’istante tutto appare sfuocato, la tragedia non è definita nell’immagine, la violenza è sospesa: c’è ancora speranza. «Remnant XVI» è uno dei lavori che raccontano il percorso di Taysir Batniji, nato a Gaza nel 1966, uno dei più significativi artisti della diaspora palestinese. La mostra «Abitare il tempo», alla Fondazione Ago di Modena dal 21 novembre al 15 febbraio 2026, a cura di Daniele De Luigi, racchiude i lavori che Batniji ha sviluppato a partire dal 2006 (anno in cui per lui è diventato estremamente complicato tornare a casa a causa della chiusura di Gaza da parte dell’esercito israeliano) e comprende fotografie, disegni, sculture e installazioni che affrontano il tema dell’esilio e il dramma che sta vivendo il suo popolo. Con uno sguardo poetico, talvolta dolorosamente ironico, sceglie di non indugiare nel dolore, e farsi di volta in volta documento, archivio e arte.
Tempo, memoria e appartenenza sono temi che attraversano tutti i suoi lavori, alcuni dei quali sembrano raccontarci una strage annunciata, come «Non di solo pane vive l’uomo» del 2012, in cui l’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani è incisa in saponette di Marsiglia, predicendo come quelle parole siano destinate a sciogliersi e come la società che si fonda su quei diritti sia pronta a lavarsi le mani del loro venir meno.
A partire dal 2023, una profonda frattura avviene nell’artista e si ripercuote sulla sua arte: «Come ha scritto Edouard Saïd, quando si vive in una terra che non è la propria, si rimane sempre legati al Paese natale senza essere completamente lì e senza essere completamente nel luogo in cui viviamo. C’è sempre qualcosa che manca. Il mio ricordo è sempre lì, il ricordo di Gaza, della mia infanzia, della mia giovinezza. Ma dopo il genocidio a Gaza, qualcosa è cambiato. C’è stata una sorta di frattura. I luoghi a cui sono legati i miei ricordi non esistono più. E quindi ho l’impressione che i miei ricordi siano come un’anima perduta che vaga senza poter approdare da nessuna parte. Non si può più tornare ad avere l’immagine completa di com’era, perché ci sono le immagini di distruzione e morte che ostacolano i ricordi», racconta Batniji.
Taysir Batniji, «Man Does Not Live on Bread Alone #2», 2012. Courtesy of the artist and Sfeir-Semler Gallery Beirut/Hamburg. Photo: Clémentine Rochet
C’è quindi un prima, in cui si inseriscono importanti lavori come la celebre sequenza di scatti «Disruptions», che raccoglie una serie di screenshot realizzati nel corso di videochiamate WhatsApp con sua madre e altri membri della famiglia a Gaza, in cui le figure pixellate evocano la guerra come una sorta di presagio, o come «Watchtowers». Questa serie di 26 fotografie mette in relazione i serbatoi idrici fotografati da Bernd e Hilla Becher negli anni Sessanta e le torri di guardia israeliane costruite per controllare i territori occupati della Cisgiordania. Lavorando con un giovane artista palestinese, Batniji ha costruito un lavoro che è sia documento sia espressione della sua poetica: «Ho utilizzato una serie di misure che fanno sì che questo lavoro venga visto come qualcosa di distaccato. Questo elimina tutto quel carico di pathos, di vittimismo, tutto ciò a cui spesso veniamo ricondotti, noi palestinesi. Perché la gente si aspetta di vedere la sofferenza, la resistenza, i segni che sono sempre legati a questa situazione. Questo è prima di tutto un interrogarsi sull’immagine, sulla questione della rappresentazione, e su come riciclare i mezzi di rappresentazione già esistenti e utilizzarli per altri obiettivi».
I lavori successivi al 7 ottobre 2023 arrivano come risposta a una violenza impossibile da assimilare, come racconta l’artista: «È difficile, penso di non aver ancora avuto abbastanza tempo per prendere le distanze da ciò che sta accadendo. Soprattutto perché sono stato colpito personalmente, ho perso molti membri della mia famiglia. Fino ad oggi è difficile per me parlare di ciò che sta accadendo. Sono rimasto inattivo per molto tempo perché non riuscivo a lavorare, non riuscivo a concentrarmi. Tutto mi sembrava insignificante, ogni espressione, sia verbale sia formale, irrisoria rispetto a ciò che stava accadendo. La realtà va oltre ogni parola, ogni espressione. Ma a poco a poco ho dovuto tornare al mio lavoro ricorrendo proprio a questa impossibilità di espressione. Ad esempio, con una serie di disegni monocromatici realizzati con matite colorate che trovo per strada e con cui riempio pagine intere. Questo mi ha permesso di dedicarmi al mio lavoro senza troppa fatica. È un po’ come ricamare o lavorare a maglia, è qualcosa di manuale, ma anche meditativo, e riflette un po’ quest’impossibilità di parlare. Sono disegni silenziosi, che non raccontano una storia, non esprimono praticamente nulla, se non per l’intensità dei colori qua e là sulla superficie».
Il progetto «Just in Case #2» vuole conservare la memoria e documentare ciò che accade. Con la collaborazione di una donna di Gaza, Batniji ha raccolto centinaia di fotografie di chiavi di case, accompagnate, quando possibile, dalle storie dei proprietari costretti ad abbandonarle: i loro nomi, le date di sfollamento e distruzione, le perdite, il luogo dove si sono rifugiati. «Per me era anche un modo per sentirmi in contatto con la vita, con le persone, in questi momenti difficili. Ho iniziato contattando i miei cari, gli amici, le persone che conosco. E poco a poco ho allargato la cerchia: è stato un po’ terapeutico, per entrambi. Molti però sono stati uccisi, massacrati dall’esercito israeliano».
Taysir Batniji, «Watchtowers», 2008. Courtesy of the artist, Collezione Fondazione Ago Modena. Photo: Aurélien Mole