Redazione GDA
Leggi i suoi articoliRattrista quando svanisce una miniera di memorie, saperi, competenze, ricordi: il 10 settembre è mancato Ottorino Nonfarmale. Era nato a Mantova il 26 gennaio 1931 e si era affacciato ventenne a una Italia da ricostruire dopo i disastri della guerra. Apparteneva a una generazione (con lui altri restauratori amici come Otello Caprara e Andrea Fedeli) che è stata protagonista della seconda metà del Novecento e che ha allungato la sua attività nel nuovo secolo.
Una generazione che chiuse un’epoca e ne aprì un’altra, consolidando un nuovo approccio teorico e pratico al patrimonio culturale nella rinascente idea di tutela, conservazione e restauro che ha trovato nell’amico e coetaneo Andrea Emiliani, scomparso un anno fa, il maggior paladino d’Italia.
Nonfarmale ha assimilato la riflessione critica sugli strumenti e sugli obiettivi tracciata da Cesare Brandi, e poi dalla Carta del restauro del 1974, e ha messo in atto l’evoluzione, nel continuum della pratica, dalle ricette di bottega alle procedure trasparenti, nei metodi e nei materiali, del moderno laboratorio.
Dopo l’apprendistato a Mantova presso Arturo Raffaldini, scelse Bologna quale base operativa. Chi si avventurasse negli archivi della Soprintentenza del capoluogo scoprirebbe le tracce le suo lavoro alla fine degli anni Cinquanta in smilzi foglietti su cui, negli anni della riparazione dei danni di guerra, segnava le spese di grandi imprese a cominciare dal recupero di cicli di affreschi.
Fin da allora ricercava e utilizzava i migliori materiali disponibili a garanzia della durabilità e della reversibilità dei suoi interventi. La sapiente manualità del giovane restauratore e la sua capacità di risolvere difficoltà anche inedite avevano colpito Cesare Gnudi, allora a capo della Soprintendenza di Bologna dove lavoravano Eugenio Riccomini e Andrea Emiliani con il quale nacque un rapporto di fiducia e di collaborazione mai disgiunto.
La rinascita della Pinacoteca di Bologna deve a Nonfarmale molte opere recuperate o restaurate, un lavoro soprattutto riflesso sui dipinti e sugli affreschi della scuola bolognese dal Trecento al Settecento, mentre dagli anni Settanta si era fatto più intenso il suo impegno sul territorio delle province con interventi di punta altamente significativi, dal Crocifisso di Giotto di Rimini, già affrontato in giovane età con Raffaldini, all’affresco di Piero della Francesca entrambi nel Tempio malatestiano di Rimini, fino alle sculture romaniche della facciata della Cattedrale di Ferrara che segnarono una tappa fondamentale per la conservazione della scultura policroma all’aperto.
Il regesto dei capolavori della storia dell’arte passati dalle sue mani è interminabile: Vitale da Bologna, Cosmè Tura, Parmigianino, Giorgione, Tiziano, Raffaello, i Carracci, Guido Reni, Guercino, Crespi fino a Felice Giani, e poi i cicli di Mezzaratta, di Schifanoia, di Pomposa, di Ravenna, di Palazzo Te a Mantova, di Faenza, le porte del Battistero di Parma, le sculture della facciata di San Petronio a Bologna, il basamento del Nettuno del Giambologna, impresa affrontata con l’amico Giovanni Morigi; senza dimenticare l’intenso e costante rapporto con la Soprintentendenza veneziana sotto la guida di Francesco Valcanover e poi di Giovanna Nepi Scirè, con interventi alle opere veronesiane delle ville palladiane, a Tiziano, Giorgione e soprattutto alle sculture della facciata di San Marco.
In Francia si è cimentato sui portali della Cattedrale di Chartres, della Basilica di Saint-Denis e dell’Abbazia di Moissac. Erano soprattutto le grandi imprese e i grandi problemi a stimolarlo: tele colossali, pareti affrescate, facciate intere.
Affrontava il lavoro in un incessante confronto con tanti storici dell’arte e direttori di musei, italiani e stranieri, che affluivano nel suo laboratorio di San Lazzaro, aperto nel 1969, una scuola per molti giovani restauratori ma anche una palestra di argomentazioni e di pensiero sui restauri da eseguire, a cominciare da quelli che precedevano le mostre sull’arte bolognese ed emiliana organizzate dalla Soprintendenza.
La sua etica professionale si esplicava anche nella valutazione economica dei restauri: non era disponibile a ribassi per accaparrarsi lavori o a utilizzare collaboratori raccogliticci o sottopagati.
Anche a Firenze lo ricordano con viva gratitudine: subito dopo la calamitosa alluvione del 1966 inviò copiose scorte di materiali del suo laboratorio per contribuire a mettere in sicurezza e limitare i danni al patrimonio artistico.
Per sua precisa volontà il laboratorio di restauro Ottorino Nonfarmale di San Lazzaro continua la sua attività con Giovanni Giannelli, direttore artistico e socio per quarant’anni, e con Barbara Roffia al tavolo amministrativo. A loro Ottorino lascia una responsabilità di tutto rispetto: il restauro della tomba canoviana dei Frari, appena iniziato.
Alle due autrici si associano ex funzionari ed amici della Soprintendenza Beni Storici e Artistici di Bologna
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