Arianna Antoniutti
Leggi i suoi articoli«A Roma esistono case e palazzi più belli che in tutto il resto dell’Italia, tuttavia il più bell’edificio del nostro tempo è la Villa del Cardinale Alessandro Albani», così Johann Joachim Winckelmann descriveva l’edificio che il porporato Alessandro Albani, nipote di Clemente XI, fece edificare, tra il 1747 e il 1763, lungo la via Salaria, dall’architetto Carlo Marchionni.
La Villa è da subito concepita non come residenza suburbana, ma come luogo deputato ad accogliere la raccolta di antichità del cardinale, appassionato collezionista di scultura antica. È una villa-museo in cui disseminare, fra gli ambienti interni e gli otto ettari di parco, le oltre mille opere che l’Albani aveva radunato, e che contavano capolavori dell’arte romana e rari originali della scultura greca.
Nel 1866 il palazzo diviene parte delle proprietà Torlonia, con l’acquisto della Villa, da parte del principe Alessandro Torlonia, dagli eredi Castelbarco. Su impulso della Fondazione Torlonia, un volume riassume ora storia, successive trasformazioni ma soprattutto ideali estetici fondativi della Villa.
La pubblicazione Villa Albani Torlonia. Alle origini del Neoclassicismo (Rizzoli Illustrati, pp. 368, € 125.00), presentata il 18 ottobre nella Villa stessa, raccoglie i saggi di Salvatore Settis, Carlo Gasparri, Alvar González-Palacios e Raniero Gnoli, ed è accompagnato da oltre trecento fotografie realizzate da Massimo Listri.
Le immagini illustrano il giardino e gli interni dell’edificio, dalla Galleria del Parnaso, con l’eponimo affresco realizzato nel 1761 da Anton Raphael Mengs, alla Sala Ovale, dal Tempio Diruto, con le sue imponenti finte rovine, alla Sala della punizione di Linceo. Quest’ultimo ambiente ospita una delle opere più preziose, un rilievo originale greco ritrovato nel Settecento sull’Esquilino, negli antichi Horti di Mecenate, che Winckelmann interpretò come la lotta fra Polluce e Linceo.
L’incontro fra il cardinale e lo studioso tedesco è da Settis definito «fatidico»: «Essi avevano in comune il terreno della vasta cultura antiquaria radicata in tutta Europa, che si proponeva di ricostruire un’antichità dilaniata dal tempo, e di farlo a partire dai suoi sparsi frammenti».
Ma, come puntualizza Gasparri, era ben nutrita la cerchia di dotti che formavano il cenacolo dell’Albani: «Nell’arredo degli ambienti si avverte ancora viva la tensione tra la visione fantastica, visionaria dell’Antico, strenuamente sostenuta dal Piranesi, e la sensibilità classicistica del Winckelmann, tradotta nel concreto dalla scelta dei marmi antichi e dagli interventi di Bartolomeo Cavaceppi».
Al saggio di González-Palacios, «Visite a Villa Albani 1764-1853», è affidato il compito di riportare impressioni e giudizi dei raffinati visitatori che, attraverso le epoche, lasciarono descrizioni della Villa: storici, come Pierre-Jean Grosley sul finire del Settecento, o scrittori, come l’irlandese Lady Morgan, che nel 1821 scrive: «Sembra un puro ed elegante tempio greco, un piccolo Pantheon!».
Infine Raniero Gnoli presenta la Villa, con il suo fastoso corredo di vasi, colonne, rilievi, frammenti di marmi, come «l’esempio più rappresentativo del gusto per le pietre colorate antiche, che tanto si sviluppò nella metà del Settecento», menzionando fra di esse, ad esempio, la colonna scanalata di alabastro nella Galleria della Leda.
Con le sue testimonianze, scritte e visive, l’intero volume, conclude Settis, è un invito al lettore a prendere parte a una trama di sguardi, a una «conversazione secolare» che, a Villa Albani Torlonia, nel corso del tempo non ha mai conosciuto interruzione.
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