Mario Trabucco della Torretta
Leggi i suoi articoliCon un certo stupore ho letto una dichiarazione di Andrew Wallace-Hadrill in merito ai marmi del Partenone: lo storico nonché archeologo britannico dichiara di non sapere come i marmi Elgin possano raccontare la loro storia a Londra. La loro presenza al British Museum è il risultato di un’impresa che ha segnato una vita, oltre a più di due secoli di cure risolute da parte dei loro devoti custodi. Se invece seguiamo l’esempio dell’archeologa e storica Susan M. Pierce che si sforza di capire «la natura del nostro rapporto con gli oggetti che provengono dal passato», scopriremo che dietro a tanto impegno e determinazione c'è molto da raccontare.
I marmi di Lord Elgin hanno stimolato l’immaginazione di poeti, pittori e scultori fin dal momento in cui le sculture hanno messo piede in Gran Bretagna. Senza di loro, quanto sarebbe stata diversa la produzione di Keats, Byron, Shelley, Flaxman, Rossi e Westmacott! Quanto sarebbe più povera la stessa Londra priva di tutte quelle cose che dai marmi hanno tratto ispirazione. La materialità spezzata e aspra di quegli «uomini di marmo e fanciulle stravolte» (Keats) portò alla fine della lunga storia d’amore con la rigida bellezza ideale del classicismo, spostando il quadrante della bussola estetica verso la sublimità della natura.
Questo cambiamento nel costruire ci ha portato alla sorprendente riscoperta di ciò che il mondo classico era realmente: le celebri certezze degli antiquari si sgretolarono, messe in discussione dagli originali greci che richiedevano un approccio più strutturato, una nuova scienza dell’antichità. Si potrebbe dire che l’archeologia scientifica europea nacque in quel momento.
Inoltre, le rovine di Atene, Figalia ed Egina, una volta trasferite nelle loro nuove case di Londra, Parigi e Monaco, divennero il combustibile inestinguibile del neonato filellenismo. E fu quel fuoco, quell’indignazione per il fatto che la culla stessa della nostra civiltà potesse giacere trascurata e ignorante della propria grandezza, a innescare un crescendo di pubblicazioni, raccolte di fondi, aiuti internazionali e, infine, sacrifici umani sull’altare della libertà dei Greci.
Ma tutta questa epopea, per i sostenitori del rimpatrio, non solo non ha valore, ma è una storia di barbarie. Nella loro narrazione, Lord Elgin è ancora una volta, come ai tempi di Byron, l’archetipo rapace degli scozzesi che vennero a completare quello che i barbari non fecero («Quod non fecerunt Gothi/Hoc fecerunt Scoti»): distruzione e saccheggio. Ed è questa macchia che cercano di cancellare dalla memoria, ripulendo la storia dell’Acropoli sulla scia di Leo von Klenze (1784-1864), l’architetto tedesco che ispirò la rimozione dalla sacra roccia di tutto ciò che non era conforme al suo ideale di grandezza classica ateniese. Poi è seguita la ricostruzione, un progetto ancora in corso, ben oltre la Carta di Venezia del 1964, che garantisce che nessuna testimonianza di cristiani, franchi, turchi e veneziani possa essere estratta dalle rovine.
Questo sforzo di riavvolgere il corso della storia, di emendare gli «errori» del passato, è in contrasto con lo sforzo accademico di comprendere veramente ciò che il Partenone è stato. Mentre gli archeologi e i classicisti cercano di scrollarsi di dosso una prospettiva «atenocentrica» sul mondo greco che non è altro che una costruzione storiografica prodotta da una selezione distorta delle fonti scritte sopravvissute al Medioevo, i sostenitori del rimpatrio e il governo ellenico vogliono che guardiamo al Partenone come all’epitome di un’intera civiltà. Mentre attaccano il British come strumento di oppressione imperialista, omettono opportunamente di informare il pubblico sullo spietato imperialismo che ha prodotto la ricchezza utilizzata per costruire il programma di Pericle. E il fatto che ai tempi di Elgin alla maggioranza dei greci non importasse nulla del destino del Partenone, viene opportunamente dimenticato dietro la storia di una Grecia «senza voce».
Non avendo argomenti i fautori del rimpatrio si sono ormai stancati di contestare la proprietà legale delle sculture. Non importa il caso legale, sostengono, c’è un caso morale. La giustizia stessa sembra richiedere che le disiecta membra del tempio sull’Acropoli siano riunite, se non sull’edificio, almeno nelle vicinanze.
Eppure, quanto può essere morale continuare ad accusare Elgin di aver «rubato» i marmi senza uno straccio di prova di un tale crimine (per non parlare di un verdetto) e senza un’abbondanza di testimonianze del contrario? Quanto può essere morale mettere da parte tutto ciò che non si adatta alla narrazione, nascondere le debolezze e i passi falsi dei greci dell’epoca, sostituendoli con la sfavillante propaganda della Guerra d’indipendenza? Quanto può essere morale attaccare Jonathan Williams, vicedirettore del British, per aver affermato la verità documentata (e logica) che «gran parte del fregio fu in effetti rimosso dalle macerie intorno al Partenone»?
Scegliamo, seguendo Aristotele, la verità storica rispetto a un’amicizia emotiva. Immergiamoci nelle incredibili storie, le nostre storie, che i marmi Elgin possono raccontarci solo a Bloomsbury (quartiere inglese nel centro di Londra dove sorge il British Museum, Ndr). Dichiarare che sono solo «pietre di nessun valore» per noi e mandarle ad Atene non farebbe altro che alimentare la bestia dell’ideologia e del mito nazionalista.
Mario Trabucco della Torretta è un archeologo classico formatosi in Sicilia e ad Atene. Ha pubblicato studi sulla scultura ateniese e sull’architettura classica ed ellenistica.
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