Redazione GDA
Leggi i suoi articoliIl caso è un de Chirico, alienato per 11 milioni di euro. Al collezionista che ne era proprietario era stato contestato che il profitto ricavato dalla cessione dell’opera (oltre 9 milioni) dovesse essere sottoposto a imposizione fiscale, sul presupposto che l’alienazione della stessa fosse espressione di attività commerciale per il fatto che il dipinto, nel corso degli anni, era stato valorizzato grazie all’esposizione in una serie di mostre internazionali e venduto quando la sua valutazione sul mercato era ai livelli massimi.
Per il fisco la plusvalenza era da considerarsi reddito diverso e come tale tassabile. La sentenza della Commissione tributaria di Trento dell’11 giugno 2019 è interessante perché riafferma principi di diritto che costituiscono un prezioso precedente per casi futuri. Il trattamento impositivo delle plusvalenze derivanti da cessione occasionale di opere d’arte era stata risolta dalla giurisprudenza con esiti incerti, diversi caso per caso.
Il tema riguarda la riconducibilità o meno della somma ricavata dalla vendita di un’opera ai «redditi diversi» derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente, ai sensi e per gli effetti dell’art. 67, comma 1, lett. i del D.p.r. 917/86 (c.d. Tuir, ovvero Testo unico delle imposte sui redditi).
In campo vi sono due opposti orientamenti. Il primo di fatto parifica la figura del collezionista a quella del mercante d’arte: ogni plusvalenza conseguita a cessione, pur se occasionale, di un’opera andrebbe sempre assoggettata a tassazione, a eccezione della sola ipotesi in cui il bene oggetto di alienazione sia pervenuto a titolo di liberalità (leggasi: per donazione).
Secondo l’altro orientamento, fatto proprio anche dalla Suprema Corte (cfr. Cassazione, sez. V, sentenza n. 21776/11), ciò che caratterizza l’attività commerciale è «la stretta relazione funzionale tra l’atto di acquisto e quello successivo di vendita» oppure «una serie di atti intermedi volti ad incrementare il valore del bene in funzione della successiva vendita».
Pertanto, tale connotazione di attività commerciale esclude che in essa possano rientrare quelle condotte che si esauriscono nel semplice atto traslativo del diritto, quale, tipicamente, una compravendita.
Ma torniamo al de Chirico in questione. La Commissione tributaria trentina rileva che tra l’acquisto dell’opera e la sua vendita non si sono frapposti atti volti alla valorizzazione della medesima «non potendo all’evidenza ritenersi tali l’esposizione del dipinto in varie mostre». L’argomentazione è la seguente: «È del tutto notorio, fino ad essere ritenuta nozione acquisita, come l’importanza artistica di de Chirico, soprattutto relativamente alle opere pittoriche più risalenti nel tempo, è un dato scollegato dalla estensione (sic, Ndr) delle opere». E aggiunge: «Il dipinto di de Chirico, insomma, si è apprezzato negli anni non in ragione della sua partecipazione a mostre, ma solamente per l’intrinseco contenuto artistico riconosciuto dalla critica».
La conclusione è scontata: l’oggetto dell’accertamento tributario (la vendita del dipinto) si era risolto in un unico atto traslativo del diritto a titolo oneroso che non poteva per questo motivo farsi rientrare nella nozione di «attività commerciale» tassabile ai sensi del Tuir.
Lapsus calami a parte (estensione anziché ostensione), colpisce la perentorietà di una tale affermazione quando è invece noto che alla pratica, senz’altro meritoria, di concedere opere in comodato a musei per pubbliche esposizioni è talora sottesa anche la legittima speranza di valorizzarle ai fini economici di una rivalutazione delle stesse.
Se così fosse, franerebbe la motivazione della Commissione tributaria per sottrarre a imposizione fiscale la plusvalenza dell’opera. Verrebbe infatti negato che il comodato di un’opera a un museo possa essere attribuito prevalentemente a mecenatismo, privilegiando invece un’implicita prospettiva di ritorno economico in ragione della quale la plusvalenza in una compravendita successiva all’esposizione diverrebbe tassabile.
In tal caso la pratica dei prestiti ai musei verrebbe seriamente compromessa. In una tematica così delicata bisognerebbe più correttamente valutare di volta in volta le circostanze e ogni elemento del singolo caso, senza la pretesa di elevare a paradigma un unico aspetto al quale ancorare il giudizio sul trattamento impositivo.
L'autore è avvocato e collezionista
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