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Nicoletta Biglietti
Leggi i suoi articoliUn granello alla volta, per ore, a ricreare un mosaico antico. Poi un gesto solo, deciso, che lo spazza via. E lascia che sia la polvere a raccontare ciò che resta: un passato che sembrava troppo lontano anche solo per essere «ricreato». Così si apre l’universo di Dana Awartani, artista palestinese-saudita nata a Gedda nel 1987, oggi divisa tra New York e la città natale. La sua è una ricerca ostinata sul confine tra tradizione e contemporaneità, tra la bellezza dell’ordine e la fragilità della memoria. Formata alla Central Saint Martins di Londra e alla Prince’s School of Traditional Arts, Awartani costruisce un linguaggio che intreccia geometria islamica, artigianato, spiritualità e politica. Pittura, scultura, performance, installazioni: ogni medium diventa un modo per restituire voce a un patrimonio culturale minacciato, e per interrogarsi sulla possibilità di guarigione collettiva.
«L’arte tradizionale ha in sé un potenziale di guarigione, afferma l’artista, non perché guarda indietro, ma perché ricorda come restare interi».
Ed è proprio da questa idea di cura e memoria che nasce il ciclo di lavori «Come, let me heal your wounds. Let me mend your broken bones» (2019–2024), in cui Awartani affronta due nodi centrali della nostra epoca: sostenibilità e distruzione culturale. I tessuti, di seta tinta naturalmente nel Kerala, nel sud dell’India, sono impregnati di una moltitudine di erbe e spezie medicinali — circa cinquanta, ciascuna con una storia, un rimedio, una memoria. Ma quei tessuti sono anche feriti: tagli, strappi, buchi che segnano i luoghi di una violenza lunga, dall’Arabia Saudita allo Yemen, dalla Siria alla Tunisia. 355 ferite ricucite a mano, punto dopo punto, come atto di resistenza. Ogni rattoppo è una cicatrice: monito e memoria insieme. In un mondo che produce e distrugge con la stessa velocità, Awartani sceglie la lentezza. Lavora con tessitrici e artigiani locali, opponendo alla logica coloniale dell’industrializzazione britannica una pratica etica, ecologica e profondamente politica. «In India ho imparato il valore del rammendo, racconta. Riparare non è solo curare: è ricordare». Quel gesto lento e meditativo del cucire diventa per Awartani una forma di pensiero, un modo per ricomporre il tempo e la memoria attraverso la materia. È nella stessa logica di cura che prende forma la sua stratificazione. In ogni lavoro si leggono anni di studio e rituale: non è solo tecnica, ma linguaggio fisico, concettuale e spirituale. Luce e ombra si alternano, stabilità e precarietà si incontrano.
Dana Awartani, «Come, let me heal your wounds. Let me mend your broken bones», 2019–2024. © Marco Zorzanello. Courtesy La Biennale di Venezia.
Ogni opera di Awartani è un dialogo tra tradizione e presente, tra la voce dei maestri del passato e quella delle generazioni di oggi. Questo intreccio trova una forma radicale e temporanea nella performance del 2017, «I Went Away and Forgot You. A While Ago I Remembered. I Remembered I’d Forgotten You. I Was Dreaming». Per giorni, l’artista ha disposto sul pavimento di una casa abbandonata a Gedda — la casa dei nonni — una geometria perfetta di sabbia colorata con pigmenti naturali, ispirata alle piastrelle islamiche. Poi, semplicemente, l’ha spazzata via. Un gesto che «brucia tutto»: il tempo, la precisione, la dedizione impiegata nel costruire. Ma è proprio in quella distruzione che l’artista trova il senso del suo lavoro: ricordare cosa resta quando la «modernità» spazza via la memoria.
La sabbia, dice Awartani, non è l’opera: è il mezzo. Un modo per esprimere dolore, ma anche libertà. In una società ossessionata dal possesso, distruggere qualcosa di bello è il suo modo di sfidare la logica dell’accumulo. Come nei mandala tibetani, la bellezza sta nel lasciare andare, nell’accettare l’impermanenza. Questa attenzione al confine tra visibile e invisibile, trova una nuova forma nel 2018 con l’installazione «Listen to My Words». Qui Awartani rielabora le griglie jaali dell’architettura islamica — schermi traforati che separavano lo spazio pubblico maschile (zahir) da quello privato femminile (batin). Sette schermi di seta ricamata a mano si illuminano, proiettando motivi geometrici che si compongono e si scompongono. Intorno, voci di donne. Poetesse arabe dal periodo jahiliyya al XV secolo, fino a oggi, lette da donne saudite contemporanee. Un coro senza volto, ma non senza corpo. Una memoria che attraversa secoli e confini, restituendo alle donne quella voce che la storia aveva velato, proprio come dietro un jaali. Un’attenzione alla memoria, alla traccia lasciata dal tempo e dalla storia che continua a guidare il lavoro di Awartani anche nelle opere più recenti.
Dana Awartani, «I Went Away and Forgot You. A While Ago I Remembered. I Remembered I’d Forgotten You. I Was Dreaming», 2017. Courtesy l'artista.
In «Where Dwellers Lay» (2022) e «When the Dust of Conflict Settles» (2023), l’artista torna a scavare tra architettura e artigianato tradizionale, recuperando ciò che il tempo e la guerra hanno disperso. Ogni costruzione è anche un atto di salvataggio: di forme, di tecniche, di memorie che rischiano di scomparire. «L’artigianato è qualcosa che si tramanda, racconta. In Siria, prima della guerra, più di venti laboratori realizzavano intarsi in madreperla, ma oggi ne è rimasto solo uno. Quell’artigianato muore con loro. Dietro a queste tecniche c’è molto simbolismo e un grande significato, ormai scomparso».
Per Dana Awartani, infatti, la geometria non è solo forma: è lingua universale. In essa convivono razionalità e spiritualità, matematica e fede. Ogni linea, ogni curva, ogni stella porta con sé un significato preciso, una direzione verso il divino. La sua arte vive in quell’equilibrio fragile tra astrazione e rappresentazione, tra ciò che è stato e ciò che ancora può rinascere. E così, «un granello alla volta», Dana Awartani ricompone un mondo. E quando decide di spazzarlo via, non lo cancella: lo trasforma. Perché anche la polvere — se guardata da vicino — custodisce memoria e bellezza, diventando il testimone silenzioso di ciò che rimane, resiste e può rinascere.
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