«I pazzi sono ovunque. Ma i pazzi di ieri sono come i pazzi di oggi?»: è la stravagante, ma serissima, premessa con la quale il Louvre presenta la sua mostra «Figure del folle. Dal Medioevo al Romanticismo», che si tiene dal 16 ottobre al 3 febbraio 2025 negli spazi dell’Hall Napoléon, riaperti dopo il restauro (nelle stesse date, il Louvre propone anche la mostra «Revoir Watteau», che ruota intorno al quadro «Pierrot, dit Le Gilles», del 1719, di recente restaurato dal museo).
In francese con la parola «fou» si intende sia il matto, in riferimento tanto al malato mentale quanto alla persona sciocca, il mattacchione, diremmo noi, sia il buffone, ovvero il giullare che si esibiva nelle corti medievali. La mostra si interroga sulla presenza della figura del «folle» nell’arte e nella cultura occidentale: «Che cosa significano questi folli che sembrano svolgere un ruolo chiave nel passaggio all’epoca moderna?, scrive il museo in una nota. Se il folle fa ridere e porta con sé un mondo fatto di buffonerie, emergono anche dimensioni erotiche, scatologiche, tragiche e violente. Capace del meglio come del peggio, il folle è al contempo colui che diverte, avverte, denuncia, inverte i valori e rovescia l’ordine stabilito».
Sono esposte più di 300 opere, in arrivo da tutto il mondo. Il personaggio del folle compare nel Medioevo, prima «marginale», diventa «onnipresente» nel Cinquecento. Creature grottesche, bizzarre, ibride (i marginalia) invadono i manoscritti e i codici miniati dell’epoca, molti dei quali prestati dalla Bibliothèque nationale de France, gli arazzi e i dipinti di Pieter Brueghel e Hyeronimus Bosch. In contesto religioso, il folle è l’incarnazione stessa del profano in opposizione al sacro, ma è anche protagonista di spicco, impudico, osceno, scurrile, dei poemi cavallereschi, simbolo di lussuria. Nelle rappresentazioni dell’epoca, è il cantastorie, il giocoliere, il contorsionista, il jolly, caratterizzato da un’iconografia ben codificata: l’abbigliamento vistoso, il bastone (la marotte) usato a mo’ di scettro, il cappuccio a tre punte con i campanelli, le orecchie d’asino. La figura del folle comincia a farsi rara nell’arte europea a partire dal Seicento, fino a sparire nel Settecento, il secolo dei Lumi, «con il trionfo della ragione», anche se «i valori che incarna (ironia, farsa o sgomento) sopravvivono, precisa il museo, manifestandosi in forme nuove, dal personaggio di Don Chisciotte, inventato da Cervantes, alle diverse maschere della Commedia dell’arte, in particolare quella di Pulcinella». Ma il folle non è morto. Ricompare di nuovo all’alba dell’Ottocento, «resuscitato» da Victor Hugo in Notre-Dame de Paris (1831), con il personaggio di Quasimodo. Il Louvre espone opere di Gustave Courbet, Jan Mateyko e del Francisco Goya più maturo, con «Il cortile del manicomio» (1794), in prestito dal Meadows Museum di Dallas: «Il volto del folle finisce con l’identificarsi con quello dell’artista, in lotta con la sua angoscia e con la sua stessa follia, scrive il museo. Gli artisti si identificano: e se il matto fossi io?».