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Roberta Bosco
Leggi i suoi articoli«È una mostra sulla rappresentazione della vittima, su come l’arte può dare voce a coloro che hanno patito un trauma terribile, su come può rendere visibile l’ingiustizia, ma anche offrire consolazione e contribuire a curare un’umanità ferita». Lo afferma Alex Mitrani, curatore della mostra «Quale umanità? La figura umana dopo la guerra 1940-1966», in corso nel Museu Nacional d’Art de Catalunya (Mnac) fino all’11 gennaio 2024. La rassegna riunisce più di cento opere di artisti particolarmente rappresentativi del panorama artistico del dopoguerra come Joan Miró, Zoran Music, Andrzej Wróblewski, Alberto Giacometti, Henry Moore, Francis Bacon, Inge Morath, Renato Guttuso, Germaine Richier, Bernard Buffet, Juana Francés e Oswaldo Guayasamín, tra gli altri.
«Abbiamo ottenuto prestiti internazionali di artisti importantissimi ma è anche una mostra di scoperta di artisti catalani più marginali, che stanno alla base della futura collezione d’arte contemporanea del Mnac. Il progetto materializza la volontà di collocare questi autori in un contesto internazionale e di rivendicarne la qualità», precisa Mitrani che ha strutturato il percorso per blocchi tematici, sempre a partire dalla problematica della vittima. «L’orrore trasformato in un’opera d’arte modifica la nostra forma di percepire i fatti. L’artista diventa il nostro portavoce» si legge nel saggio che lo psichiatra Boris Cyrulnik, che ha sviluppato il concetto di resilienza, ha scritto per il catalogo.
Dopo gli anni della seconda guerra mondiale, il bombardamento di Berlino e la bomba atomica in Giappone, l’umanità entrò in crisi. La cultura dell’immagine non ci aveva ancora addestrati a normalizzare il dolore, la sofferenza e l’orrore e il trauma di tanta violenza si rifletteva nella società e nel sentire generale. In questa situazione l’arte assume un ruolo quasi catartico, «trasforma la tragedia in bellezza» scrive Cyrulnik.
Eppure, nonostante la qualità estetica delle opere di Zoran Music o Giacometti, presente con una preziosa piccola scultura che contiene tutta la debolezza e fragilità umana, prevale l’orrore, l’angoscia che trasuda dalle «Donne rapate» dell’artista ungherese transgenere Anton Prinner (1902-83) e nelle bambole carbonizzate di Modest Cuixart, tormentati resti di un’infanzia negata, immolata sull’altare dell’odio. Chi avrebbe potuto dire che l’inaugurazione della rassegna sarebbe coincisa con gli attacchi del 7 ottobre e la rappresaglia successiva?
«Disgraziatamente è un tema molto attuale. La guerra fa parte delle nostre notizie quotidiane, anche se spesso la affrontiamo da una prospettiva eurocentrica o solo se ci sentiamo coinvolti quando si tratta di un conflitto vicino a noi geograficamente o ideologicamente. Purtroppo, la guerra è una costante nel nostro pianeta e sempre implica violenza e dolore per le popolazioni civili, gli innocenti. L’arte può contribuire a esplicitare e denunciare questa volenza, per superarla e ritrovare una certa dignità», conclude Mitrani.

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