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Giovanni Pellinghelli del Monticello
Leggi i suoi articoliBologna. Al Teatro Comunale, dal 15 al 22 novembre, va in scena «Elektra »di Richard Strauss con libretto di Hugo von Hofmannsthal, tratto dalla sua stessa tragedia omonima, nell’allestimento ideato da Patrick Kinmonth (1957). Un’opera «difficile», intensa e straziata come questa (che nel 1909 al suo debutto all’Opera Reale di Dresda fu un insuccesso clamoroso e solo l’anno seguente, a Londra, venne acclamata) viene genialmente trasformata da Kinmonth in uno spettacolo in cui la violenza della trama si sublima nell’invenzione artistica di scene e costumi a cui si coordinano la regia di Guy Joosten e le luci di Manfred Voos.
La resa finale è un «tutto estetico» organico e consequenziale che avviluppa lo spettatore fra musica, voci, immagini, gesti, bagliori e colori. Kinmonth è pittore, architetto, scenografo, regista, designer e stilista di moda, interior decorator, editore d'arte, direttore creativo e curatore di mostre (Tate Modern, National Portrait Gallery, Musée des Arts Décoratifs, Louvre, Museo dell’Ara Pacis, Metropolitan Museum of Arts, Boston Museum of Fine Arts, Beijing Today Art Museum, Shanghai Art Museum) e la stampa internazionale l’ha definito «esempio contemporaneo di uomo rinascimentale che mette la propria creatività a servizio dell'arte».
In questa coproduzione fra il Théâtre de la Monnaie di Bruxelles, il Gran Teatre del Liceu di Barcellona e il Comunale di Bologna, la vicenda che vede la figlia di Agamennone ribelle alla madre Clitemnestra (moglie infedele e assassina) ridotta a vivere isolata come una demente in angolo del cortile del palazzo degli Atridi a Micenee, è ambientata da Kinmonth nella cupa e claustrofobica corte interna di un palazzo dall’architettura sì cinquecentesca ma di stile austero, rigido e rigoroso come la Pilotta di Parma e l’Escorial a Madrid. Qui, al gioco di toni e sovratoni dal grigio al bruno e l’arredo in strutture di tubi innocenti e barili di vecchia lamiera si oppone, stagliandosi nell’angolo destro del palcoscenico, la parodossale «tana» della reietta Elektra: una sorta di tenda settecentesca di damasco rosso sangue di bue al cui centro si impone una dormeuse sottratta alla «Grande Odalisque» di Jean-Dominque Ingres o a Paolina Borghese che, ricoperta di raso giallo e in legno dorato, illumina tutta la scena mentre la dolcezza e mansuetudine della sorella minore Crisotemide è sottolineata dall’evidente eco della ritrattistica borghese tedesca degli anni Trenta del Novecento.
Le citazioni artistiche si rincorrono nel corso dello spettacolo ravvivando il voluto cupore dell’ambientazione in un imprecisato ambiente nazista, in cui le ancelle infedeli sono truculente kapò ed Egisto una sorta di crapuloso ammiraglio nazista, alternandosi a quelle dal cinema e dalla moda, formativi nell’esperienza artistica di Kinmonth: i compagni di bagordi di Egisto mimano esplicitamente gli sgherri di «Arancia Meccanica» di Kubrick e Clitemnestra appare come Gloria Swanson in «Viale del tramonto» reincarnata in Meryl Streep in «Il diavolo veste Prada».
Trionfale e catartica la scena finale in cui, a celebrare la morte di Clitemnestra e di Egisto ma pure quella di Elektra, la spettrale Pilotta si solleva a lasciare spazio a una sala serliana abbagliante di biancore neoclassico alla Inigo Jones in cui i corpi dei giustiziati e dei servi infedeli, lacerati dal sangue in macchie taglienti di luminosissimo rosso, reclamano l’aggressivo cromatismo di Francis Bacon e Lucian Freud.

Clitemnestra in «Elektra». Foto © Rocco Casaluci 2015

Scena per l'«Elektra». Foto © Rocco Casaluci 2015
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