Redazione GdA
Leggi i suoi articoliGiovanni Agnelli
La Stampa
«L’ho conosciuto bene. Era sicuramente la persona più piacevole con cui guardare un quadro… Paul Getty lo volle nel consiglio del Museo Getty, quasi lo impose quando si rese conto del suo talento. Ma Zeri litigò con tutti i consiglieri: contestava sistematicamente gli acquisti di opere, l’autenticità delle attribuzioni. Ricordo che, a proposito di una certa statua greca ripescata in Adriatico, il contrasto divenne insanabile».
Pierluigi Battista
La Stampa
«Chissà che sarcastiche filastrocche avrebbe improvvisato Federico Zeri vedendo il funerale di un Grande Trasgressivo trasformato in evento di Stato e accompagnato in pompa magna da Carabinieri in alta uniforme e autorità istituzionali in compagnia di così numerosi uomini di scorta da imporre il trasferimento della salma in una sala più capiente del San Michele. E che motti salaci nell’osservare come l’ultimo saluto a un eccentrico romano ironico e autoironico potesse finire per rivelarsi come la sgradevole manifestazione di una “romanità” di Palazzo invadente, presenzialista e pure esibizionista… Una cerimonia in cui rettori dell’Università, accademici e coautori di libri si sono disordinatamente accalcati attorno al catafalco per recitare ciascuno la propria personale orazione funebre».
Carlo Bertelli
Corriere della Sera
«Nelle geniali metamorfosi televisive, da fante della Prima Guerra Mondiale a dragomanno in caftano, Federico Zeri conservava sempre il filo di una aggressiva inaccessibilità. Eppure non era così aspro, Zeri, per chi ammetteva alla sua presenza».
Geneviève Breerette
Le Monde
«Sebbene fosse un esperto della pittura italiana del XIII e del XIV secolo, Federico Zeri non ha mai limitato i suoi interessi a un’epoca o a una scuola particolare. Era un conoscitore curioso di tutte le discipline culturali e aveva qualcosa da dire sull’arte culinaria come sul viso di Greta Garbo, che collocava in qualche punto tra la pittura di Jawlensky e quella impressionista. Nella sua autobiografia, apparsa nel 1995, Zeri evoca il suo incontro con l’attrice e i magri pasti consumati insieme».
Maurizio Calvesi
La Repubblica
«Una figura tra le più eminenti, ma sarebbe tuttavia azzardato vedere in lui un mito dell’infallibilità».
Luciano Caprile
Il Secolo XIX
«Il fatto di essere ritenuto uno dei massimi esperti del nostro Rinascimento non gli ha impedito di spaziare, secondo il suo collaudato procedimento, in altri campi collaterali e in altri secoli, compreso il nostro».
Marco Bona Castellotti
Il Sole 24 Ore
«È difficile trovare, nelle nuove generazioni di intellettuali, figuriamoci di filologi e storici dell’arte, una curiosità rivolta all’umano pari alla sua. Zeri la lasciava appena trasparire o la confidava raramente, con pudore, solo a chi riteneva degno che gli fosse comunicata… Il patrimonio della cultura di Federico Zeri era fondamentalmente custodito nella sua singolare memoria e nel suo intuito; quindi, per buona parte, è irrecuperabile. Standogli appresso si imparava molto; eppure non amava essere considerato un maestro, forse perché la didattica gli ricordava il modo con cui di solito si insegna».
Paolo Conti
Corriere della Sera
«Nel ’46 entrò alle Belle Arti. Ci rimase fino alla metà degli anni Cinquanta. Zeri giurava di essersene andato per protesta contro “la burocrazia e l’ignoranza degli addetti”. Altri assicurano che fu invece l’amministrazione (Giulio Carlo Argan era ispettore centrale) a “suggerirgli” di scegliere tra carriera statale e consulenze esterne: il giovanissimo Zeri era già noto sul mercato come un impareggiabile conoscitore. Fatto sta che Zeri se ne andò: nacque allora un’inimicizia destinata a durare nei decenni. Anche perché (succede, in Italia) i due discendevano da padri culturali già nemici: Zeri da Longhi, Argan da Venturi».
Roberto D’Agostino
L’Espresso
«Vorrei, non altrove ma qui la resurrezione di Federico Zeri. Se è chiedere troppo, almeno fare i morti meno tali. Quindi interrogarli per riuscire a tirare avanti tra i vivi che non parlano, non scrivono, non telefonano. Zeri parlava, parlava, e quanto telefonava… Aveva un canale aperto, sempre, con l’orecchio del Grande Vecchio e la bocca del malpensante. Capace di tutto e disposto a qualunque survoltaggio».
Philippe de Montebello
La Repubblica
«Era un uomo raffinatissimo. Mi colpiva in lui la memoria prodigiosa, sovrumana. E quel suo essere profondamente italiano e, nello stesso tempo, internazionale».
Giulio Einaudi
La Stampa
«Un grande e originale critico che tutto il mondo ci invidiava, che da solo, senza il supporto di alcuna accademia, con la forza della sua passione e la violenza delle sue invettive si è posto come il più strenuo difensore dei beni culturali del nostro paese».
Andrea Emiliani
Il Messaggero
«Confesso che avrei preferito un’ammissione realistica di metodo, da parte dell’uomo cui la tradizione italiana della disciplina, la storia dell’arte, aveva affidato l’immenso compito di riepilogare le glorie della connoisseurship che gli giungevano da Lanzi e da Cavalcaselle, da Berenson e da Longhi, nonché da Morelli e dai grandi Bode e Voss, e consegnarci in questo modo il ritratto dello studioso. Poiché Zeri è stato un eroe della comunicazione artistica, un atleta di fototeca e di biblioteca, dotato di una memoria mostruosa: fortificato, si direbbe, da quell’elisir indispensabile per lo storico delle forme artistiche, che consiste nel cercare di eliminare ogni altro aspetto della vita circostante e nell’innalzare così sull’altare dell’occhio l’opera d’arte. La sola cosa che conta».
Lola Galán
El País
«Eletto nel 1992 da “Il Giornale dell’Arte”, in un referendum internazionale, il “Premio Nobel dell’Arte”, Zeri, che fu consigliere di Paul Getty e di Greta Garbo, non si considerava un intellettuale e nel 1995 dichiarava a “El País” che “gli intellettuali non meritano alcuna stima. Sono persino peggio dei politici perché vivono in un mondo isolato, di sogni e di utopie”».
Cesare Garboli
La Repubblica
«Zeri è stato un grande conoscitore-collezionista, uno storico dell’arte curioso dei segreti dell’arte (gli piaceva stare “dietro l’immagine”). Ma il suo amore per l’arte mi è sempre sembrato povero di fuoco, alimentato o divorato da un’ambigua ambizione e voracità di sapere. Zeri non conosceva né gli entusiasmi mentali dei libertini né la passione degli innamorati. Per sua stessa ammissione, si occupava di “croste”, i capolavori gli dicevano poco. Che cosa gli piaceva dell’arte?».
Antonio Giuliano
Commemorazione al San Michele
«In Federico Zeri la civiltà dell’Italia è calata con naturalezza, sin dalle radici più lontane. Il suo era il bagaglio di un paese che possiede una tradizione immensa: ed egli si esprimeva con tono alto e aspro; monologo con il passato, più che dialogo con il presente. La consapevolezza che questa ricchezza si perde ogni giorno, assieme alla razza stessa che l’ha creata, lo rendeva ispido e malinconico, mai vinto. Da questo nasceva anche la semplicità con la quale affrontava tanti temi dell’arte romana, soprattutto di età tarda. Raccoglitore affannato di iscrizioni antiche (si calava in esse per ricomprendere la campitura delle lettere nello spazio), di porfidi e pietre dure, di sculture scabre e inconsuete (la sua raccolta di busti palmireni è tra le più importanti del mondo)… Pochi hanno avuto una percezione visiva pari alla sua, almeno per l’antichità tarda: le sue illustrazioni al “Costantino” del Burckhardt sono il suo capolavoro».
Ernst Gombrich
La Stampa
«Era uno spirito assai mordente… Molto intelligente».
Alvar González-Palacios
Il Sole 24 Ore
«Federico Zeri non era un uomo intelligente: era un uomo geniale. L’intelligenza dovrebbe portare alla serenità poiché consente di vedere le cose nel pieno del lume vero, scoprendone il segreto e la bellezza. Il genio è, da una parte, quello spirito o demone, buono o no, che accompagna l’uomo dalla nascita alla morte: ad esso si attribuisce qualcosa di sovrumano. La genialità è anche la forza dell’ingegno che crea nel bello e nel vero, cogliendo e aiutando a capire l’armonia tra le idee e i sentimenti. Nessuno storico dell’arte italiano è stato in grado di incarnare tali qualità in questo secolo se si eccettua Roberto Longhi. Dirò di più: sono pochi gli scrittori e i pensatori italiani del Novecento che hanno avuto simili doni. Zeri era indubbiamente più geniale di Longhi (che era però più poeta e più alto scrittore) ma le sue irripetibili qualità erano ostacolate dalla stravaganza del carattere e da una forma esacerbata di romanticismo che ai più è apparsa soltanto cinica. L’amor patrio, ad esempio, assumeva in lui un aspetto materno così possessivo da diventare evirante: siccome la nazione, chi la abita e chi la governa, non corrispondevano ai suoi fondati ideali finiva per detestarli, così come una madre mostruosa odia il figlio incapace. Questa corda pazza, di una lucidità talmente tesa da sconfinare nella nevrosi, non gli ha mai consentito, temo, quel distacco che uomini meno brillanti di lui hanno raggiunto. È vissuto sempre in tensione, sul filo del rasoio, spinto da una forza che lo allontanava suo malgrado da ciò che amava. Il suo acume critico gli mostrava implacabile le mancanze e i difetti di ogni cosa, raggelando un entusiasmo che si mantenne vivo fino all’ultimo giorno della sua esistenza».
Anne Hanley
The Independent
«Zeri lascia al mondo molti scritti, ma non quei dotti saggi così amati dal mondo accademico. Utilizzò invece il suo talento per compilare i cataloghi di alcune delle più grandi collezioni, come i quattro volumi sull’Arte Italiana del Metropolitan Museum di New York. I cataloghi delle gallerie Spada e Pallavicini sono considerati classici del loro genere: eruditi, impeccabilmente ricercati, ma allo stesso tempo leggibili. L’inchiostro variopinto (1985) riporta i suoi sforzi nello smascherare i falsi, mentre Dietro l’immagine: conversazioni sull’arte di leggere l’arte (1987; tradotto in inglese nel 1990 con il titolo di Behind the image: the art of reading paintings) esplora i vari approcci possibili all’arte, e Giorno per giorno nella pittura (1994) è un viaggio attraverso i tesori artistici italiani meno conosciuti».
Elisabeth Lebovici
Libération
«Con la sua testa leonina da canuto proconsole romano, Federico Zeri portava con un certo stile i segni distintivi di una tipologia leggermente inconsueta di esteta. Quella di Berenson e di Longhi, amatori illuminati, diventati professionisti del consiglio in materia di gusto in generale, e di opere d’arte in particolare. Solo che Federico Zeri adorava l’imprecazione».
Danilo Maestosi
Il Messaggero
«Lo chiamano a catalogare i dipinti del museo di Baltimora e del Metropolitan Museum di New York. E Paul Getty senior lo vuole tra i fondatori del suo museo di Malibù, incarico che lascerà negli anni Ottanta, scontando la franchezza con cui cerca invano di opporsi all’acquisto di una falsa statua della Grecia arcaica. Lo stesso fiuto gli fa smascherare la clamorosa beffa dei finti Modigliani, che avevano tratto in inganno Argan e altre grandi firme della critica d’arte italiana».
Indro Montanelli
Il Corriere della Sera
«Io forse, nel rievocare Federico Zeri, sono un po’ condizionato dalla fervida amicizia che a lui mi ha legato per decenni, anche se solcata da altrettanto fervidi litigi. Non si poteva non litigare con Zeri se si voleva conservarne l’affetto e la stima. A me, si capisce, era impossibile farlo col critico d’arte, data la mia sprovvedutezza in materia. Dinanzi a un dipinto o a una scultura, stavo ad ascoltarlo perché altro non c’era da fare. Prima di esprimerne un giudizio, e spesso dimenticandosene del tutto, Zeri, anche se li vedeva per la prima volta (il che avveniva in un caso su mille), li “raccontava” come se avesse presenziato alla loro nascita e compimento. … Con un simile interlocutore, le polemiche preferivo farle su un terreno un po’ più a me congeniale come la Storia, di cui era un conoscitore profondo perché, secondo lui (ma in questo eravamo d’accordo), di arte non si poteva capire nulla senza possederne l’anagrafe. “Provati un po’, mi diceva, a capire la Cappella Sistina senza sapere che cosa erano il Papa Giulio II e la sua Chiesa”».
Luis Monreal
La Vanguardia
«È morto l’ultimo “condottiero”, un personaggio non comune, storico di grande cultura visiva e letteraria, pioniere in vari campi della critica e maestro di diverse generazioni. Scompare con lui un modo di vedere, studiare e vivere l’arte. Zeri è morto nel modo magniloquente e teatrale che lo ha sempre contraddistinto: è caduto fulminato davanti agli sguardi increduli delle sculture e dei personaggi dipinti da grandi maestri che decorano il suo studio».
Antonio Paolucci
La Nazione
«Adesso che Federico Zeri è morto non abbiamo più un antagonista. Zeri era severissimo nel giudicarci perché nessuno come lui conosceva il patrimonio artistico italiano. … Per un uomo come lui le cose davvero importanti erano nell’ordine: il catalogo del patrimonio, la sistemazione dei depositi dei musei, la pubblicazione dei repertori territoriali. I soprintendenti (io fra gli altri) troppo spesso si occupano di diverse e più effimere cose: del turismo culturale, dei musei aperti giorno e notte, delle mostre di successo, dei prestiti all’estero. È la logica dei tempi che ci obbliga a questo. Zeri non lo capiva, o se anche lo capiva, si arrabbiava lo stesso».
Pietro Petraroia
Corriere della Sera
«Mentre Zeri parlava della cultura come sistema di relazioni, esemplificando magari con le contaminazioni fra i ricettari gastronomici regionali, non potevo non pensare al suo forse più celebre e più godibile saggio, Due dipinti, la filologia e un nome. Lo lessi da studente universitario, perché quando andai da Cesare Brandi nel luglio 1974 a chiedergli di assegnarmi una tesi di laurea (era il momento in cui Zeri lo attaccava violentemente, fra l’altro per l’acquisizione alla Galleria Nazionale delle Marche di un disputatissimo Raffaello), proprio Brandi mi rimandò a casa a studiare il saggio di Zeri».
Dietmar Polaczek
Frankfurter Allgemeine Zeitung
«L’avvocato del diavolo della critica, il difensore di una conoscenza artistica elitaria, che oggi combatte contro l’economia di mercato, l’ignoranza delle istituzioni scolastiche e la speculazione edilizia, si è risparmiato l’invasione delle cavallette che porterà a Roma i pellegrini per il Giubileo del 2000, che egli stesso ha dipinto a tinte fosche».
Elena Pontiggia
Il Giornale
«Zeri aveva incarnato modernamente il ruolo antico del conoscitore. E questo gli era valso non poche riserve nel nostro mondo accademico, malato spesso di letterarietà. Non a caso Zeri aveva incontrato larga fortuna soprattutto nel mondo anglosassone: inglesi e americani, con il loro tradizionale empirismo, non se lo erano lasciati sfuggire».
Arturo Carlo Quintavalle
Corriere della Sera
«Il suo metodo è stato determinante per porre l’accento sui centri minori, sui problemi della periferia dell’arte, lasciando da parte schemi tradizionali, modelli consueti, alla ricerca delle zone escluse, di percorsi inattesi».
Paolo Rizzi
Il Gazzettino
«Orgoglioso qual era, esorcista e stregone della storia dell’arte, sicuro del suo genio di “connoisseur”, amava confessare anche i suoi errori con una punta di narcisistico sadismo. In ciò era conscio di aggiungere qualcosa alla sua superiorità intellettuale e culturale».
Alberto Ronchey
La Stampa
«Non era solo un critico dell’arte italiana, ma lavorava su scala planetaria. Con una telefonata poteva spostare una collezione da una parte all’altra del mondo».
Marco Rosci
La Stampa
«Era di una curiosità ingorda, che sguinzagliava volentieri al di là dell’arte. Leggeva voluttuosamente la cronaca nera e i giallacci, imitava le gallinelle della tv, poteva intrattenerti ore su un monile di ambra come sul Maestro delle Tavole Barberini (di cui aveva sciolto l’enigma), discettare di un francobollo con la stessa intensità con cui partiva lancia in resta contro l’“imperialismo toscano”, per togliere con gran scandalo la primazia di Giotto a Assisi e restituirla a un romano. Procedeva spesso per dispetto e caparbietà (le stesse colpe che attribuiva a Longhi), detestava Michelangelo e non ne faceva un mistero… Le sue modalità operative erano quelle di un enorme “citazionismo” della cultura figurativa alle spalle, dai primitivi fino a Raffaello. I suoi riflessi si prolungavano fino all’“art sacré” ottocentesca, per cui Zeri osservava che una pala del Sermoneta nella sua città natale “sembra più vicina alla Roma di Pio IX che a quella di Pio V”».
Pierre Rosenberg
Le Journal des Arts
«Egli ha intrattenuto con l’Italia una relazione passionale, conflittuale. Nulla è sfuggito alla sua ira, nessuna classe sociale, eccetto gli artigiani, piccolo popolo di cui parlava con commossa tenerezza, e alcuni vecchi aristocratici, alcune grandi signore oggi scomparse che sapevano lanciare mode intellettuali e consacrare i talenti artistici. Il suo amore-odio non si è mai mitigato, e pertanto ha dedicato la sua vita al passato dell’Italia. I suoi saggi, le sue numerose opere trattano per la maggior parte di artisti italiani, prima di tutto di quei “primitivi” che, spesso esposti nei nostri musei, hanno ritrovato grazie a lui una paternità. Ha redatto gli esemplari cataloghi della Galleria Spada e Pallavicini di Roma, quello dei dipinti italiani presenti al Metropolitan Museum di New York e alla Walters Art Gallery di Baltimora. Le sue notizie costituiscono dei modelli del genere. Ma il suo pittore preferito era Rubens. Inclassificabile Zeri! Aveva imparato ad osservare diversamente le opere secondo le loro origini geografiche. Della “Deposizione” di Rogier van der Weyden conservata al Prado diceva: “Bisogna iniziare dalle lacrime”, mentre nel “Giudizio Universale” di Michelangelo, “è la composizione che primeggia”».
Vittorio Sgarbi
La Stampa
«Uno stilita. Solo, in cima alla colonna scanalata di un tempio dorico, vestigia di un luogo abbandonato, distrutto, abbattuto. Ecco come si vedeva ed era Federico Zeri. Mondano ma pur sempre stilita nel senso più stretto della condizione, eremita che, solo e isolato, grida al mondo quello che il mondo ignora e forse non vuole capire. Tornando al mio odio per Zeri, si trattava di un odio assolutamente personale, che non aveva niente a che fare con l’impresa, con l’opera, con ciò che Zeri aveva scritto e diceva, con il suo carattere, il suo umore, la sua bizzarria. Era un fatto personale, e i fatti personali cessano con la persona, si esauriscono con l’esaurirsi della vita… Il morto è più forte di te: puoi soltanto rispettarlo, non puoi disprezzarlo. La parte di Zeri che io un giorno ho maledetto è morta con la sua persona, mentre a non morire, a essere imperitura e più forte della morte, è la sua figura, ciò che ha scritto, ciò che ha pensato, persino ciò che, col suo modo caratteristico di farsi beffe di tutti, diceva agli amici».
Goffredo Silvestri
Messaggero Veneto
«Memorabile la sua polemica su uno dei pezzi sacri dell’archeologia, il “Trono Ludovisi”; contro tutti, inimicandosi anche quelli che lo consideravano altamente, sposò e argomentò l’ipotesi di un americano secondo cui il trono è un falso ottocentesco. È stato anche il primo a smascherare le false sculture di Modigliani, quasi contro tutti gli illustri colleghi».
Claudio Spadoni
Resto del Carlino
«Ma chi può dire, a parte il gusto della provocazione e il piacere personale di prendersi queste ed altre licenze (come i proverbiali scherzi telefonici) che anche queste stravaganze non abbiano avvicinato in qualche modo all’arte, e sia pure per vie poco ortodosse, una parte di pubblico? Dietro allo spietato fustigatore della “mediocrazia” intellettuale, dei grigi burocrati dell’arte, degli insipienti con regolare licenza di far danni; sotto quelle incredibili palandrane sfoggiate ad uso televisivo c’era, ed è questo che più conta, lo studioso d’eccezione».
The Times
«Zeri era diventato il più importante esperto del dopoguerra in arte italiana medievale e rinascimentale, ma i suoi settori di competenza erano così numerosi che la sua opinione era ricercata e rispettata e spaziava dal gruppo di teste di Modigliani ritrovate nel fiume a Livorno, che egli immediatamente dichiarò falsi facendo nascere un dibattito, all’autenticità di un prezioso kouros greco destinato al Getty Museum, anch’esso dichiarato falso».
Paolo Vagheggi
La Repubblica
«Federico Zeri ammaliava, affascinava raccontando l’arte, come sanno gli amici che lo accompagnarono a Parigi quando fu nominato accademico di Francia, a Bologna quando gli fu concessa la laurea honoris causa, come ben sanno gli ascoltatori del programma radiofonico dedicato ai piccoli musei che curava con passione, o gli spettatori del programma televisivo “Non solo Assisi”, dedicato ai disastri del terremoto. Il suo occhio infallibilmente riconosceva grandi e piccoli maestri dei dipinti abbandonati nei palazzi e nelle chiese… Occhio infallibile ma senza eredi».
Marco Vallora
Liberal
«Era un temibile persecutore dei luoghi comuni, un disfacitore delle pigre scorciatoie dell’intelligenza: avanzava con quel suo passo felpato, insinuante, che poteva anche apparire mellifluo, ma appena ti era vicino, felino, tirava fuori la zampata a sorpresa. Anche per affetto: un affetto contrastato, mascherato da celie e cantilene, da cerimonie e nomignoli, un po’ in stile Fellini… Il marmo antico delle Sfingi e la luce liquida del tramonto, come in un verso di Seferis: questa la sua vera doppia natura. L’eterno e il friabile. Perché egli era uno storico tanto dell’arte quanto della vita, che si disfa e consuma. L’arte, che è un momento di felice pietrificazione della vita, ma che con le sue indagini poliziesche lui riusciva a risciogliere in vitalità e scoperta, magnetismo».
Gianni Vattimo
La Stampa
«Quello di Zeri non era uno storicismo dogmatico e deterministico, per il quale le opere si spiegano con le condizioni sociali che le hanno preparate: né, comunque, si limitava alla ricostruzione della situazione originale dell’opera. Zeri applicava invece, certo senza teorizzarlo, quell’atteggiamento metodico che proprio l’ermeneutica contemporanea ha riconosciuto necessario in tutte le scienze della cultura, e che con un vocabolo tedesco un po’ ostico (Zeri ci avrebbe fatto su dell’ironia, probabilmente) si chiama l’attenzione alla Wirkungsgeschichte, alla “storia degli effetti”, di un’opera, di un evento, di un testo, di una personalità. Le forme spirituali che ci sono tramandate dal passato, e fra di esse le opere d’arte, ci parlano in quanto sono giunte a noi cariche di una vicenda di interpretazioni, dalla quale non si può prescindere per accostarle e capirle. Zeri sembrava pensare che la storia “esterna" delle opere, per esempio i passaggi di proprietà, le vicissitudini attraversate dal loro “corpo” collocato in collezioni e musei, trasferito magari come bottino di guerra, entrasse a costituire la comprensione allo stesso titolo, e forse anche più, che i tratti strettamente formali, quelli che in genere la critica “estetica” pensa di dover preferire».
Walter Veltroni
Il Messaggero
«Era una grande personalità che ha conquistato una fama internazionale, dovuta a decine di testi fondamentali e alla sua presenza nel dibattito culturale. Un grande studioso, un grande appassionato, un grande moralista che non si è mai stancato di segnalare grandi e piccoli misfatti perpetrati contro l’arte… Da quando ho cominciato a fare questo lavoro Federico Zeri è stato un riferimento molto importante; mi avevano detto di stare attento a lui. Mi mancheranno le sue telefonate di stimolo. Il nostro era un rapporto divertente, fatto delle sue battute, i suoi aneddoti, le sue poesie, filastrocche, barzellette. Forse il fatto di essere noi così diversi ci aiutava a capire».
Marisa Volpi
L’Avvenire
«Difficilissimo è esemplificare e riassumere il lavoro di Zeri, perché esso non solo è diramato, non accademico, ma in una certa misura asistematico, o meglio, il sistema c’è, ma è come nascosto dagli slalom che egli ci costringe a compiere tra la storia e i dati dell’oggetto d’arte nel momento in cui fu creato e durante la sua vicenda ulteriore negli anni e nei secoli. Attitudine da detective che lo spinge a dirimere una quantità di manipolazioni e di mistificazioni, tali che rimaniamo per sempre allarmati dalla sua acribia, e mai più potremmo abbandonarci all’emozione di un dipinto o di un arredo senza aver verificato la completa assoluta legittimità dell’opera. Questa tensione fanatica alla verità è in un certo senso il suo più importante ammaestramento».
Patrizia Zambrano
Il Diario
«Per lui il territorio abbandonato a se stesso, vittima dell’ignoranza degli amministratori, era veramente l’orizzonte naturale nel quale muoversi, il più ampio e il più drammaticamente bisognoso. In questo caso il suo infallibile occhio di connoisseur lasciava il posto all’occhio pietoso del filosofo illuminato, e poi a quello vigile dello storico, e poi, quando scriveva sui giornali o parlava alla radio o alla televisione, il suo occhio diventava quello del censore e del polemista. Lo addolorava, lo arrabbiava, lo accendeva di indignazione lo iato incolmabile tra la tradizione culturale del paese e la sua condizione attuale».
Questo testo è stato originariamente pubblicato ne «Il Giornale dell'Arte» n. 171, novembre 1998
ANNO ZERI
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