Roberta Bosco
Leggi i suoi articoli«La fiera tranquilla». Così Maribel López, direttrice di ARCOmadrid, ha definito questa 44ma edizione della fiera d’arte contemporanea più importante della Spagna, che si è inaugurata ieri, mercoledì 5 marzo, alla presenza di numerose autorità, compresi il re Felipe e la regina Letizia con giacchetta di pelle rossa di una marca spagnola low cost andata subito a ruba nei negozi di tutta la penisola. Tranquilla si, ma con i galleristi spagnoli con i nervi a fior di pelle per la questione dell’IVA al 21% che crea un mercato squilibrato e li mette in una situazione di svantaggio in confronto ad alcuni colleghi europei che godono di un’IVA culturale ridotta. In protesta hanno iniziato la fiera spegnendo le luci di tutti i loro stand per 10 minuti, poi tutto ha ripreso il ritmo normale. Un ritmo tranquillo se non fosse per l’indignazione dell’associazione MAV (Mujeres en las Artes Visuales) che denuncia il ritorno a un ARCO non paritario. Secondo il comunicato la presenza delle artiste si è ridotta di nuovo al 35,1% e nel caso di artiste spagnole addirittura al 5,8%, mentre che nelle altre fiere non si apprezza lo stesso retrocesso. La decina di gallerie in più degli altri anni (in totale sono 214 espositori di 36 Paesi) si notano più del previsto: i corridoi sembrano più stretti e sono già affollatissimi fin dal primo giorno, nonostante la fiera sia riservata a collezionisti, curatori e professionisti del ramo, fino a venerdì alle ore 15. Poi le porte si apriranno al pubblico e chissà che ressa che ci sarà nel week-end. L’inaugurazione ufficiale, che normalmente si celebrava il giovedì mattina è stata anticipata al mercoledì sera, ma per il resto il programma si svolge come sempre.
Nonostante i piccoli cambiamenti tutto è pervaso da una certa sensazione di déjà-vu, forse dovuta al focus sull’America Latina che ha preso il sopravvento ormai da alcuni anni. Anche per quanto riguarda le sezioni curate non aiuta molto che, dopo un 2024 dedicato alle realtà del Caribe, quest’anno sia la volta dell’Amazzonia e si ripetano sia una delle curatrici sia varie gallerie. L’ultima Biennale di Venezia ha messo in orbita l’arte indigena e la fiera non ha perso l’occasione di seguire il filone, ma seppur con le sue limitazioni, la formula del paese ospite apportava sempre realtà nuove e spesso sconosciute e sono in molti a chiederne il ritorno. Gli stand sono dominati da dipinti friendly e piccole sculture ed è sempre più difficile trovare progetti sperimentali e opere che affrontano le grandi sfide della contemporaneità. Viviamo in tempi preoccupanti e il mercato non ne è immune, per questo la maggior parte delle gallerie espone opere che possano essere vendute facilmente. La tecnologia è più presente di altri anni con varie opere da Max Estrella di Daniel Canogar e «Binocular tension» del messicano Rafael Lozano-Hemmer, forse l’unica opera in fiera concepita per guardare e non per essere guardata: sono due grandi occhi umani che seguono i visitatori e si vendono per 120mila euro. Da RocioSantaCruz, Dionís Escorsa ha portato un acquerello dipinto da suo nonno nel paesino di Tavèrnoles su cui proietta immagini trasmesse da un sito web del servizio meteorologico di modo che l’immagine cambia con il trascorrere delle ore, dall’alba al tramonto e se piove o nevica a Tavèrnoles, piove e nevica anche nel dipinto.

L’installazione di Ramón Mateos alla Freijo Gallery
Tra le 15 gallerie italiane spiccano alcune proposte particolarmente interessanti come il solo show di Petra Feriancovadalla romana Gilda Lavia che dopo due anni nella sezione Opening, riservata alle gallerie giovani, è passata al programma generale. L’installazione della slovacca si compone di 52 foto di grandi dimensioni, inserite in una struttura di legno simile a una specie di domino che consente di vedere interamente solo la prima e l’ultima immagine. Nel programma generale anche la milanese P420 che presenta un progetto di Adelaide Cioni. L’artista stravolge completamente lo stand foderandolo tutto di una tela con una specie di griglia, che serve come un metaforico sistema di localizzazione spaziale da cui pendono grandi simboli colorati di lana cucita a mano con una precisione straordinaria. «Mi interessa modificare lo spazio, questo non è un lavoro tessile, sul filo, sul cucito, ma piuttosto una riflessione sul colore, sulla forma e sulla memoria attraverso simboli che ricorrono nelle iconografie umane da secoli» spiega Cioni. Tornano dopo alcuni anni i Minini, padre e figlia, con uno spazio dominato da Peter Halley, affiancato dalle interessanti foto legate a pitture di Jacopo Benassi. Come ogni anno non mancano le provocazioni, forse un po’ troppo didascaliche, ma perfette per i selfies.

Lo stand della galleria P420 che presenta un progetto di Adelaide Cioni
È il caso dell’installazione di Ramón Mateos nella galleria Freijo, una tenda in alluminio nero su cui è stampato il numero 7.291 in memoria delle persone lasciate morire nelle case di cura di Madrid durante la pandemia. Si tratta di un’accusa, neanche tanto velata, alla molto criticata gestione di Isabel Diaz Ayuso la discussa presidentessa della Comunità di Madrid. Dopo Franco nel frigorifero, Picasso nella bara e tante altre opere che sono diventate le più fotografate della loro edizione, Eugenio Merino presenta da ADN una lavastoviglie con dentro dei piatti con i ritratti di Donald Trump, Elon Musk, Giorgia Meloni, Santiago Abascal e altri politici di destra. L’opera di chiama «White Washing» e costa 22mila euro. Dopo l’abbandono di Juana de Aizpuru, la fondatrice di ARCO e gallerista di razza, quest’anno mancano anche Marlborough e Helga de Alvear, tanto gallerista quanto collezionista, per questo nel suo storico spazio (ridotto alla metà), in un omaggio postumo si espongono i suoi ultimi acquisti a ARCO (naturalmente non sono in vendita). Come in ogni fiera che si rispetti non mancano i grandi. Lelong offre opere di Juan Gris, Miró e Barceló che superano il milione di euro, ma la più cara è probabilmente un Robert Rauschenberg di Thaddaeus Ropac che raggiunge 1.700.000 euro.
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