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Non poteva che essere Alberto Fiz, che già nel 2002-03 con Pietro Bellasi e Tulliola Sparagni costruiva per il Museo Archeologico di Aosta la mostra «L’arte del gioco. Da Klee a Boetti» (uno spettacolare percorso sul rapporto tra arti visive e dimensione ludica), a curare una mostra e un libro dedicati ad Aldo Spoldi, uno dei più fantasiosi e ironici creatori italiani di racconti per immagini: «Se la funzione dell’arte è quella di rimettere in discussione le regole costituite ponendosi come voce critica all’interno del sistema, spiegava in quell’occasione Fiz, ecco che il gioco diventa l’elemento essenziale per raggiungere la consapevolezza e sviluppare nuovi spazi di creatività».
Da sempre, da quando è emerso alla fine degli anni Settanta nella composita compagine dei Nuovi-Nuovi, la corrente sostenuta da Renato Barilli, Spoldi, classe 1950, gioca con la storia, la cronologia, la letteratura, con gli stessi personaggi e sovrastrutture dell’arte, dando vita a curatori e filosofi fittizi, ma anche, nel 2007, a una Accademia dello Scivolo, così, tanto per restituire all’arte il suo ruolo di instabilità, avventura, imprevedibilità.
E allora tutto viene messo in gioco, a cominciare dalla cornice che «è il pettegolezzo del quadro. Assomiglia alla cornacchia, non solo etimologicamente, ma in quanto la cornacchia è un uccello rococò. La cornice, pettegolando, annuncia un triste presagio: il limite della pittura e l’avvento del perimetro che gracchia. La cornice è più che mai il bordo della pittura, è il luogo in cui essa si fa effimera e puramente decorativa: è il suo bordello».
«La sfida» (2023) di Aldo Spoldi (particolare)
Così scriveva Spoldi in un bel testo del 1985 sul rapporto tra pittura e spazio, laddove «un quadro si fa automaticamente strada» nello spazio e non ha bisogno di orpelli installativi. Lo si è visto bene nella recente mostra che l’artista lombardo (1950) ha presentato alla Fondazione delle Stelline a Milano, le cui pareti erano percorse da un lungo fregio animato da tutti i personaggi creati o rievocati da Spoldi nei suoi molti mondi «teorici o pittorici», come scrive Loredana Parmesani nel libro-catalogo pubblicato nell’occasione da Allemandi. Ma se il superamento del bordo, l’evasione del quadro dal suo perimetro canonico non è più un problema (Spoldi dixit), pare che anche gli archivi non siano più inviolabili o non siano soltanto) inerti obitori della memoria.
La recente mostra è nata infatti dal recupero e dalla rielaborazione di opere del passato dello stesso artista: «Ho aperto l’ordinato archivio: caotici sono balzati fuori i giocosi lavori che ho realizzato dal 1968 a oggi, scrive l’artista nel testo di prefazione al catalogo. Immediatamente ho scorto un lavoro, ben catalogato, del 1968 che fuggendo fuori dal registro ne corteggiava un altro del 1980 il quale, uscito dall’elenco, gli faceva l’occhiolino. Poi si è aperto il sipario dell’opera lirica “Enrico il Verd”e ed è apparsa una grande festa dove tutte le opere del passato si rincorrevano, socializzavano, danzavano, libere dalla sociologia e dalla temporalità delle date.
Ho capito all’istante di avere una nuova tavolozza: sotto i colori dei quadri inventariati per titoli e per date, scappano fuori dalla servitù secolare gaudenti e libere essenze che desideravano dialogare (…) Non è mia intenzione dipingere un quadro nuovo. Con le opere del passato preferisco mettere assieme un grande puzzle: un atto unico dove vengono, per amor fati, rivissuti le avventure e i tempi della mia vita/archivio».
Aldo Spoldi fotografato da Giorgio Colombo nel 1977
Anche l’archivio, segmento fondamentale nell’economia dell’arte e della sua documentazione, ma anche divenuto da qualche anno una alquanto seriosa categoria estetica elevata a tale da alcuni artisti contemporanei, non è più al sicuro. «Sempre più importanti per il sistema dell’arte, è proprio intorno agli archivi che si gioca la partita, in quanto solo chi possiede la documentazione certificata di un artista può movimentare il mercato controllando, a suon di rialzi, i listini delle aste, scrive Fiz.
Spoldi, come sempre ha fatto durante tutta la sua carriera, sconvolge le regole e affranca l’archivio dalle catene che lo tengono immobilizzato rendendolo parte integrante di un rinnovato processo creativo. Di fronte a un’arte abituata a formulare moduli ripetitivi spacciati per creazioni originali o che si diletta in un citazionismo retorico e banale, Spoldi non si limita a mettere in discussione la storia come entità metafisica, bensì, cosa assai più coraggiosa, compie un atto di sabotaggio sulla sua storia variando le trame, la messa in scena e la disposizione dei suoi personaggi.
I percorsi del passato, che il tempo aveva tentato con difficoltà di ordinare, si ripresentano beffardi e totalmente modificati; tutto precipita in un gorgo vitalistico da cui l’artista trae l’energia per costruire “La guerra dei mondi” (questo il tiolo di mostra e libro, Ndr) un’inedita installazione site specific realizzata nel 2023 utilizzando opere vecchie, talune decrepite, altre dimenticate in chissà quale angolo dell’immenso capannone di Bagnolo Cremasco dove l’artista custodisce gran parte dei suoi segreti».
Se nel 1980 aveva un senso scrivere, come fece Francesca Alinovi a proposito della generazione degli Spoldi, degli Jori, dei Levini, dei Maraniello, dei Wal e dei Mainolfi, dei Salvo e degli Ontani, di «irresponsabilità festosa del disimpegno», oggi (ecco che il tempo si riprende i suoi diritti di disvelatore della verità) parlare di «disimpegno» e soprattutto di «irresponsabilità» a proposito di Spoldi non è più così appropriato. Non lo è proprio per il ruolo destabilizzante che l’«artista ludens» ricopre in un sistema dell’arte capace di trasgredire una cosa soltanto: il ruolo dell’arte stessa come portatrice di libertà esistenziale e creativa.
«Accademia di Brera- Aula Hayez, esercizi di pittura» (1995) di Aldo Spoldi
« Il mondo globalizzato non sa giocare. Fa sul serio! Costruito sul modello del dadaismo, che invece giocava, è severo, accigliato, sorveglia e punisce. Erede di Duchamp, trasforma il ludico ready made in strumento atto ad alzare il Pil. Le avanguardie artistiche sono state davvero avanguardie: hanno aperto le strade al mondo globalizzato che ha perso la capacità ludica». L’artista che nel 1985 tramutava il suo immaginario Teatro Oklahoma nell’omonima, e altrettanto fittizia, banca, irridente parodia di un mondo in cui tutto si dematerializzava, comprese l’arte e l’economia, per diventare finanza («dopo il 1971 arte ed economia condividono la loro sventura.
Entrambe, infatti, sono delegittimate. Ah Ah! La prima è senza grande racconto, la seconda senza fondo aureo. Che fare? L’Accademia dello Scivolo, mossa dal motto “Qui non si lavora, si gioca”»), per questa mostra è partito da un’opera dipinta nel 1968 eseguita con una voluta eresia tecnica: «Desideravo un quadro capace di viverecome un organismo. Lo dipinsi a olio su di un pannello ricoperto di formica dove il colore si incolla ma non penetra. Un voluto errore madornale da cui nasce però il suo errare, fuggire, vagare, vagabondare. Erano gli anni in cui il boom della pittura stava cedendo il passo e all’Accademia di Brera stavo progettando i personaggi virtuali »
L’arlecchino-pittore-spadaccino armato di pennello ne è il protagonista, non senza echi picassiani e da lui ha preso vita alle Stelline «un visivo poema epico che raccontale gesta dei miei quadri». «La guerra dei mondi» (cioè i mondi cui ha dato vita lo stesso autore) comincia con una bambina che spara a un mappamondo mentre l’immaginario filosofo Andrea Bortolon è fuggito da un dipinto dello stesso Spoldi del 1996 e «dà vita, spiega Fiz, a un gioco di soldatini in grado di sfidare i pedoni della scacchiera di Duchamp».
«Il mondo nuovo» (2011) di Aldo Spoldi (particolare)
Non manca «l’artista virtuale brasiliana Cristina Karanovic (detta Cristina Show) la quale, armata di una pistola giocattolo, spara fuori Il mondo nuovo, e dà vita all’esercito e ai muscoli propri delle società civili (…). Un teatro di forme animate da spinte spericolate e avventurose. È la guerra dei mondi, la guerra dei linguaggi, la guerra delle narrazioni». L’attuale libro-catalogo percorre passo a passo lo spettacolo messo in scena da Spoldi, una sarabanda in cui le sagome delle figure prendono il posto del perimetro regolare delle cornici.
È inevitabile, guardando a Spoldi, pittore-burattinaio, alle riflessioni di Heinrich Von Kleist nel suo Teatro delle marionette: «Questi fantocci hanno il pregio di essere antigravi. Non conoscono l’inerzia della materia, la proprietà che più di tutte si oppone alla danza, in quanto la forza che li solleva in aria è superiore a quella che li incatena alla terra. […] Al pari degli elfi, le marionette non hanno bisogno del suolo se non per sfiorarlo e per poter rianimare, grazie a quell’ostacolo momentaneo, lo slancio delle loro membra; il suolo occorre a noi invece perché su di esso riposiamo e troviamo ristoro alle fatiche della danza: momento che in sé, palesemente, non è vera danza, e che conviene abbreviare il più possibile poiché nulla può sortirne di buono».
Qui il libro edito da Allemandi Editore
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