Louisa Buck
Leggi i suoi articoliSorprendentemente, la mostra «Women in Revolt! Art and Activism in the UK 1970-1990», aperta fino al 7 aprile 2024, segna la prima volta in cui, nella sua storia, la Tate Britain di Londra ha presentato un’indagine seria sull’arte femminista inglese; e secondo la curatrice Linsey Young, questa raccolta di opere di oltre 100 artiste singole e collettivi, molti dei quali alla loro prima esposizione pubblica da decenni, segna «la più grande mostra mai organizzata alla Tate Britain».
È anche una mostra che rompe gli schemi nella forma, nel contenuto e nello spirito. Con un candore rinfrescante e non istituzionale, Young afferma che «nonostante le sue dimensioni e le sue ambizioni, e gli anni di amore e attenzione che vi sono stati dedicati… so già che è un fallimento». Ma questo non è un atto di accusa nei confronti della mostra, bensì un’onesta consapevolezza che ogni tentativo di raggiungere quello che la scrittrice femminista nera britannica Lola Olufemi descrive come un «universale vincolante» è destinato a fallire. Invece, come scrive Olufemi nell’eccellente catalogo della mostra, «dobbiamo lasciarci trasportare dai desideri disordinati della nostra comunità, abbracciando la miriade di posizioni che assumiamo nella nostra lotta per l’uguaglianza».
Sovversività scoppiettante
L’approccio al disordine è al centro di questa mostra energica, arrabbiata ma anche gioiosa, in cui arte e politica si intrecciano in modi molteplici e non categorizzabili. Le opere d’arte femministe, realizzate con diversi supporti e provenienti da comunità e città diverse, si intersecano con una miriade di movimenti e cause: diritti civili e discriminazione razziale, punk rock, diritti di lesbiche, trans e gay, richieste di migliori condizioni di lavoro e assistenza sanitaria, nonché sostenibilità ambientale e disarmo nucleare, con il leggendario Greenham Common Women’s Peace Camp in primo piano. A volte furiosa, a volte esilarante, spesso corruscamente critica, ma anche esuberantemente celebrativa, «Women in Revolt!» brilla di una sovversività raramente riscontrata in una mostra museale. In queste sale, come nella vita reale, informazione, arte e attivismo si mescolano e si fondono.
Dimenticate le dee Gaia e il woo-woo spirituale, qui l’accento è posto sulla dura realtà e sulle ingiustizie quotidiane, con temi notoriamente trascurati come il lavoro domestico, la maternità, il sesso e la cura dei bambini in primo piano. Il grintoso guanto di sfida viene lanciato nella prima opera della mostra, «Mother and Child at Breaking Point» (Madre e figlio al punto di rottura), un potente dipinto del 1970 di Maureen Scott che ritrae una madre esausta e dagli occhi spenti che stringe un bambino che si contorce e grida. Senza badare ai chakra, queste donne sono profondamente radicate nella quotidianità. Helen Chadwick si rinchiude in un elettrodomestico da cucina con seni ad anello e pancia a tamburo, Penny Slinger si presenta come una torta nuziale con le gambe aperte, mentre Linder Sterling si esibisce al club Hacienda con un vestito di carne e un dildo.
Caroline Coon dipinge la convivialità tra le lavoratrici del sesso, mentre Melanie Friend realizza un potente studio sulle madri adolescenti, disperate ma orgogliosamente sfiduciate. Lubaina Himid dipinge un uomo bianco su un monociclo che fa penzolare una carota davanti a una donna nera, mentre Liz Ride si porta all’orgasmo in una cabina per fototessere.
Ripetutamente, le donne in rivolta della Tate Britain condiscono le loro proteste con un’abbondante dose di umorismo. Una delle opere più audaci e brillanti si trova all’esterno, sul prato della Tate Britain, dove si può letteralmente mangiare il patriarcato nella ricostruzione di Bobby Baker della sua leggendaria «An Edible Family in a Mobile Home» del 1976. Questa Gesamtkunstwerk consumabile presenta una famiglia a grandezza naturale fatta di torte e biscotti che abita nella casa prefabbricata dei primi anni Sessanta dove Baker presentò originariamente l’opera a Stepney, nell’est di Londra, dove viveva anche lei: il papà è una torta alla frutta; una figlia meringa si libra sopra il letto circondata da pagine della rivista «Jackie»; un figlio garibaldino giace in un bagno tappezzato di supereroi Marvel.
I visitatori sono incoraggiati a servirsi di questi elaborati dolci, lasciando solo briciole e resti grottescamente sfigurati. Per Baker, l’intenzione originaria era quella di realizzare un’opera «locale e accessibile», che potesse essere consumata dalle famiglie che circondano la sua casa, piuttosto che da un mondo dell’arte che lei considera «elitario ed estremamente maschilista». È stata colta di sorpresa quando l’opera è diventata inaspettatamente personale. «Non era intenzionalmente autobiografica e finché non ho visto questa famiglia devastata, non mi sono resa conto di aver creato la mia stessa famiglia», mi ha detto.
Sebbene la «Edible Family» di Baker sia in un certo senso un’opera degli anni Settanta, per la sua natura ingeribile è anche parte del presente di tutti. «Si tratta di ciò che accade nella vita delle persone, la forza e l’importanza di vivere», ha affermato l’artista riguardo alla sua nuova versione dell’opera.
Come gran parte della mostra, quest’opera generosa, seria e divertente è al contempo del suo tempo e assolutamente rilevante per il mondo di oggi. Nel Regno Unito, in questo momento, le donne sono ancora meno pagate sul posto di lavoro, continuano a essere aggredite dagli uomini e sono minacciate dalla crisi della sanità pubblica, degli alloggi e del costo della vita. Questa mostra cruciale e stimolante sottolinea che ora, più che mai, le donne sono ancora in rivolta.
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