Stefano Causa
Leggi i suoi articoliA mezzo secolo dalla morte, è come minimo doveroso farlo rientrare dal portone principale del Novecento italiano; né vi è dubbio che questo rendiconto a quattro mani costituirà da oggi un lasciapassare obbligato. Ma non è facile. Romano, classe 1897 (muore nel 1974), Anselmo Ballester, dal cognome spagnolissimo, è solitamente assente da repertori o mostre panoramiche sul secolo scorso. Dentro, e anche fuori gli ambienti accademici, locandine cinematografiche e copertine di dischi o libri sono da sempre accolte dalle stesse resistenze che hanno fatto scivolare Ennio Morricone, Nino Rota o lo stesso Armando Trovajoli fuori dalla foto di classe dei grandi compositori del Novecento.
Perciò non so dire se la definizione, cucitagli addosso, di pittore cinematografico per lui, di un anno più giovane di de Pisis e di sette di Morandi, non suoni ghettizzante (un poco come rubricare Morricone alla voce «autore di colonne sonore»). Cinematografico il nostro Anselmo: a patto che l’aggettivo ne sottolinei il talento speciale e non la destinazione d’uso (in Italia nessuno è stato più cinematografico di de Chirico). D’altronde non si capisce perché, se un panorama del Novecento americano sarebbe lacunoso senza le illustrazioni di Rockwell o i titoli di testa di Saul Bass, da noi non si debba includere pittori dalla perfetta reperibilità figurativa senza evocare il talento di Ballester o di Nino Campeggi. Tra illustrazioni di libri e fumetti, il meglio era sempre rimasto fuori.
Quanto alle locandine, negli anni tra le due guerre costituiscono una prima lettura critica del film, sovrapponendosi in un ricalco creativo. Il protagonista o la coppia di protagonisti sbalzano contro un fondale che riassuma la trama. Un’immagine sola ma tale da imprimersi, a presa rapida, nei nervi di chi pregustasse il buio in sala. In «Fronte del Porto» di Elia Kazan (1954) l’aculeo in primo piano sbarra la strada a un Marlon Brando capopopolo (e di sfondo la citazione dal capolavoro di Pellizza da Volpedo è cucinata con finezza). Né Danielle Darrieux era mai stata così radiosa, una Gilda o Sabrina in salsa piccantina, come nella reinvenzione fattane da Ballester per «La Signorina mia madre» (1938).
Anselmo Ballester e il cinema dipinto
di Stefania Babboni e Elisa Bini, 128 pp., ill. col., Electa, Milano 2024, € 24
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