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Era il 1954 quando Arnaldo Pomodoro (Morciano di Romagna, 1926) si trasferiva a Milano da Pesaro. Era stata la visita dell’anno prima, alla famosa mostra di Picasso in Palazzo Reale, a spingerlo a lasciare un lavoro sicuro per tentare la via dell’arte a Milano, con il fratello Gio’. Fu un azzardo vincente, perché Lucio Fontana riconobbe subito il valore dei due artisti che presto, grazie a lui, esposero i loro gioielli in Triennale, e che già nel 1956 furono invitati alla Biennale di Venezia.
Per Arnaldo, l’inizio di un percorso sfolgorante, che nel 1966 lo avrebbe portato, da visiting professor, alla Stanford University, poi a Berkeley, dove frequentò i poeti e gli scrittori della Beat Generation (e, con sguardo complice, vide sorgere i movimenti da cui sarebbe scaturito il ‘68), mentre riceveva i premi più prestigiosi (Biennale di San Paolo, 1963; Biennale di Venezia, 1964; Premio Carnegie, 1967, e molti altri fino al Praemium Imperiale della Japan Association, sorta di Nobel della scultura, nel 1990, poi altri ancora). E mostre ovunque nel mondo.
In quei primi anni a Milano, mentre al bar Jamaica frequentava gli artisti più sperimentali della città, Arnaldo Pomodoro creava rilievi di non grandi dimensioni, spesso realizzati con materiali atipici e poveri, e percorsi da un alfabeto misterioso che Giulio Carlo Argan definì «un codice di cui si è perduta la cifra» e Leonardo Sinisgalli «una scrittura sconcertante».
Con questi lavori poco noti ma bellissimi e a lui molto cari (volle esporne alcuni nella mostra curata nel 2016, per i suoi 90 anni, da chi scrive e dalla Fondazione a lui intitolata, per Palazzo Reale a Milano) si avvia l’omaggio curato da Alberto Salvadori, intitolato «Arnaldo Pomodoro: il movimento possibile» che Cortesi Gallery, con la Fondazione Arnaldo Pomodoro, gli dedica dal 22 marzo al 28 giugno in via Morigi 8. In mostra sfilano alcuni di quei precoci lavori della seconda metà degli anni ’50, inediti, e i suoi sperimentali gioielli, dove s’intrecciano le suggestioni dell’Informale segnico e la lezione dei suoi «padri putativi»: Paul Klee primo fra tutti, cui presto si aggiungono Brâncuși («Nasco come scultore nella saletta di Brâncuși al MoMA, è qui che ho come una folgorazione»), che gli ispirerà le sue «Colonne» (qui, la storica «Colonna del viaggiatore», 1960-61, tramata dal suo alfabeto misterioso), e Boccioni («mi insegnò che la scultura è movimento»).
Nel cortile del palazzo, una «Sfera» lucente e perfetta ma corrosa e scavata all’interno, uno dei suoi temi più efficaci e fortunati, e in galleria, oltre ad altre inconfondibili sculture, anche i libri d’artista, le bellissime, scultoree incisioni, alcuni filmati, e lo struggente modello (1973) per il cimitero, mai realizzato, di Urbino («la mia spina nel cuore»): una spaccatura vagamente cruciforme scavata nella collina che sovrasta Urbino, nelle cui pareti sarebbero state aperte le nicchie per le tombe: «un progetto, ci disse allora, ispirato dall’idea dell’uguaglianza di tutti nella morte, e del ritorno dei defunti alla terra, dove le sementi vengono sepolte l’inverno e germogliano a primavera e dove i fiori, secondo una crescita naturale, sarebbero entrati liberamente nelle pareti e nei loculi». Un (potenziale) autentico capolavoro.

«Frammento V» (2004), di Arnaldo Pomodoro (particolare)

Studio del progetto per il nuovo cimitero di Urbino di Arnaldo Pomodoro. Foto: Radino
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