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Giorgia Aprosio
Leggi i suoi articoliLo sciopero dei lavoratori della Tate è iniziato ufficialmente il 26 novembre, dopo un ballot sindacale in cui il 98% dei membri PCS (Public and Commercial Services Union) ha votato a favore della mobilitazione, con un’affluenza superiore all’87%: un dato riportato in modo concorde da The Guardian (12 novembre), ArtReview (13 novembre) e Artnet News (27 novembre). Il primo ciclo di scioperi, programmato fino al 2 dicembre, ha coinvolto tutte le sedi del gruppo – Tate Modern, Tate Britain, Tate Liverpool e Tate St Ives – e si è concluso senza un accordo. PCS ha già dichiarato che la mobilitazione potrebbe proseguire nelle prossime settimane.
La protesta ha ottenuto una rilevanza internazionale, e il sostegno sul campo è stato altrettanto significativo: artisti come Mark Leckey, Helen Cammock, Jesse Darling, Elizabeth Price e Tai Shani sono intervenuti ai picchetti; il collettivo Taring Padi ha realizzato una xilografia in solidarietà; esponenti politici come la deputata laburista Kim Johnson e il collega John McDonnell, già Shadow Chancellor, hanno espresso il proprio appoggio. Per sette giorni consecutivi, oltre 150 dipendenti hanno presidiato ingressi e piazze, tra slogan, interventi pubblici e un’ampia partecipazione del pubblico.
Tra le motivazioni, le riorganizzazioni successive alla pandemia, che hanno lasciato in eredità carichi di lavoro più alti e benefit ridotti; scelte che, sommate ai provvedimenti più recenti e poco tutelanti, hanno portato molti dipendenti al punto di rottura. A fronte di un’inflazione al 3,8%, la dirigenza Tate ha proposto aumenti compresi tra il 2% e il 3%, descritti come “below-inflationary” da Artforum, “inadequate” da The Guardian e “insulting” da ArtReview. Hyperallergic ha inoltre ricordato che si tratta del secondo anno consecutivo in cui ai dipendenti vengono offerte retribuzioni inferiori al tasso di inflazione. Nella primavera 2025 la Tate ha eliminato il 7% del personale (circa quaranta ruoli), ha chiuso la mensa sovvenzionata e ai nuovi assunti è stato negato l’accesso al Civil Service Pension Scheme (Artforum, 17 novembre).
Le testimonianze raccolte dai giornali mostrano condizioni al limite non solo dal punto di vista materiale. «Anche lavorando ore extra, arrivo a fine mese con fatica e non riesco sempre a coprire tutte le spese. L’ansia economica sta avendo un impatto sulla mia salute mentale», racconta una lavoratrice a The Art Newspaper. «Molti di noi sono artisti. La Tate dice di voler sostenere l’arte e gli artisti, ma sembra non rendersi conto che gli artisti fanno parte della sua forza lavoro», aggiunge un dipendente intervistato dal Socialist Worker. Un’altra testimonianza riportata dal Guardian tocca il nodo centrale: «È difficile restare motivati quando fai un lavoro importante, ma il tuo stipendio non copre il costo della vita. Non riesco più a immaginarmi un futuro nell’arte in queste condizioni».
L’Artists’ Union England, in un intervento pubblicato su ArtReview, parla apertamente di una “divisione di classe nell’arte”. Il sindacato cita il caso documentato da Artist Leaks di un artista pagato 6.000 sterline per un progetto durato due anni – l’equivalente di 1,56 sterline l’ora – mentre il budget di produzione ammontava a 120.000 sterline: «Non è inevitabile, è una scelta», dichiarano le co-segretarie Madeleine Pledge e Maxima Smith. «E oggi scegliamo di stare dalla parte dei lavoratori dell’arte che chiedono condizioni dignitose: pane e rose».
Se si sposta lo sguardo sull’Europa, il quadro non appare molto più rassicurante; tanto meno in Italia, dove il problema nasce ancora prima dei numeri, con l’opacità strutturale del settore. Fino a tempi recenti, infatti, non sono esistite raccolte sistematiche di dati né studi longitudinali capaci di mappare con precisione le condizioni economiche, contrattuali e previdenziali dei professionisti dell’arte – e questo in un mondo in cui le statistiche abbondano, purché riguardino le aste e non i lavoratori. Una delle prime realtà a colmare questo vuoto è stata AWI – Art Workers Italia, organizzazione indipendente fondata nel 2020 dai lavoratori e dalle lavoratrici dell’arte con l’obiettivo di promuovere diritti, trasparenza, tutele, compensi adeguati e riconoscimento professionale. Il loro primo grande progetto di analisi, l’Indagine di Settore 2021, è oggi inevitabilmente datato – coincide con l’inizio dell’attività dell’associazione e con una fase di transizione post-pandemica – ma resta l’unico tentativo organico di fotografare il lavoro culturale in Italia.
Già allora i dati delineavano un sistema fragile: il 48,9% dei professionisti dell’arte guadagnava meno di 10.000 euro l’anno; il 24% tra 10.000 e 20.000; oltre il 70% viveva dunque sotto o appena sopra la soglia di povertà. Il 55% del lavoro non era regolato da un contratto scritto; il 39,5% operava tramite partita IVA; il 37% svolgeva una parte delle proprie mansioni in nero. Il 58,5% lavorava più di 40 ore a settimana, il 15,2% superava le 60. E tuttavia solo il 30% era pagato per tutti i propri incarichi; il 36% per meno della metà; il 7% per nessuno. Numeri che, per quanto bisognosi di aggiornamento, restituiscono l’immagine di un sistema che continua a riprodurre le stesse modalità di lavoro, pur essendo palesemente insostenibile, nel pubblico come nel privato.
A questo quadro si aggiunge il costo della vita nelle città europee dove si concentra gran parte della produzione culturale. Secondo i dati pubblicati da Will Italia nel 2025, a Berlino si destina in media il 40% del reddito all’affitto, a Parigi il 45%, ad Amsterdam il 49%. A Milano il rapporto affitto/reddito arriva al 71% per un bilocale centrale, a fronte di un reddito medio cittadino di 2.052 euro netti mensili, a Roma l’affitto pesa per il 65% sul reddito medio dei residenti, pari a 1.872 euro.
Insomma, Milano soffre una pressione immobiliare altissima; Roma un mercato più frammentato e salari medi più bassi; entrambe continuano ad attrarre lavoratori qualificati senza riuscire a garantire loro un reale margine di vita.
Uno striscione appeso al Museo del Novecento di Milano durante una protesta nel dicembre 2023
Sempre Will Italia osserva come, dopo un breve calo nel biennio pandemico, i canoni siano tornati a crescere con costanza: la domanda di affitti è aumentata del 30% negli ultimi cinque anni come alternativa al mutuo, sempre meno accessibile; i proprietari percepiscono rischi maggiori; la diffusione degli affitti brevi riduce l’offerta di lungo periodo, facendo ulteriormente lievitare i prezzi. Anche il dibattito sul tetto agli affitti, molto discusso nel 2025, rischia di essere fuorviante: nel lungo periodo, un tetto rigido può ridurre l’offerta e quindi far salire ancora i prezzi.
In tutto ciò, la casa non è certo l’unica spesa necessaria per vivere adeguatamente, e non ci sarebbe nemmeno bisogno di ricordarlo. Nel 2025 AWI ha pubblicato delle linee guida sui compensi minimi raccomandati, uno strumento pensato per orientare un settore che in Italia troppo spesso opera ancora senza contratti o con proposte poco trasparenti sul fronte dei tariffari. Il rischio – evidente guardando l’andamento generale – è che quei minimi vengano interpretati come standard adeguati, quando in molti casi coprono a malapena il costo della vita, che peraltro varia drasticamente da città a città. Un incarico curatoriale complesso può richiedere mesi di lavoro ed essere valutato in cifre che, in molte aree urbane, non coprono nemmeno un mese di affitto; alcune prestazioni altamente specializzate – dalla scrittura di un testo critico alla gestione di un progetto – risultano, su base oraria, inferiori al compenso minimo previsto per altre professioni tutelate.
C’è poi un nodo che raramente viene detto ad alta voce: un’azienda è responsabile del proprio modello. Se un’istituzione culturale non è più sostenibile, il problema è innanzitutto dell’istituzione. Non esiste settore in cui la fragilità gestionale debba essere assorbita da chi ha già gli stipendi più bassi e minore forza contrattuale. Se un modello non regge, va cambiato. Se una struttura non sta in piedi, va ripensata, magari anche ridimensionata o chiusa. Continuare a usare il “sacrificio dei lavoratori” come paracadute, appellandosi al loro buon cuore, non è una strategia: è un fallimento manageriale.
Il nodo è culturale oltre che economico. E la vocazione non basta a compensare un reddito appena «sufficiente».
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