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Silvano Manganaro
Leggi i suoi articoliSin dai tempi del primo Rinascimento la pittura è stata, per dirla con Leon Battista Alberti, una «finestra aperta sul mondo». Quando con il Novecento le cose sono cominciate a cambiare profondamente, per i pittori si è posto non solo il problema della contrapposizione figurativo-non figurativo, ma anche quello del «supporto», ovvero: che cosa fare della tela?
Che cos’è quest’ultima e come si relaziona con l’atto del dipingere? Giorgio Griffa (Torino, 1936) è da sempre incentrato su questa questione e «Change», la mostra che la galleria Lorcan O’Neill gli dedica (terza monografica, dopo quelle del 2014 e 2017) fino al 22 marzo, parte proprio da questa riflessione.
Esponendo dei rari lavori del 1968 montati ancora su telaio, pratica che il pittore abbandonerà negli anni successivi, si sottolinea come, in quel lasso temporale che vide Griffa partecipare a mostre fondamentali, la necessità di rimettere in discussione i fondamenti stessi dell’arte fosse primaria.
È stato lo stesso pittore in un’intervista con Hans Ulrich Obrist del 2014 a raccontare: «Dato che stavo dipingendo per terra, non potevo usare un telaio, quindi ce l’ho messo dopo. Poi ho capito che era meglio [lasciare i quadri] senza cornice, per un paio di motivi: in primo luogo perché per me il tessuto non è un supporto su cui lavoro, ma piuttosto una parte integrante del lavoro, con una capacità propria. Mi piaceva preservare questo senso di qualcosa di provvisorio, qualcosa che rappresenta il mondo, ma non pretende di rappresentarlo definitivamente o interamente». Il telaio, quindi, facendo il verso all’Alberti, è tornato a essere solo quello delle finestre.

Giorgio Griffa, «Dall’Alto», 1968. Galleria Lorcan O’Neill
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