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Robert Rauschenberg, «Trasmettitore Argento Glut (Neapolitan)», 1987, Collezione Luigi e Peppino Agrati - Intesa Sanpaolo

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Robert Rauschenberg, «Trasmettitore Argento Glut (Neapolitan)», 1987, Collezione Luigi e Peppino Agrati - Intesa Sanpaolo

Dal New Dada alla Pop art: il radicalismo negli anni Sessanta

Per il secondo appuntamento dedicato alla «Collezione Inattesa», Luca Massimo Barbero sceglie un momento specifico dell’arte del secolo scorso e, in particolare, dedica un focus a Rauschenberg

Due anni fa le Gallerie d’Italia-Milano presentarono «Una Collezione Inattesa», non una mostra ma un «percorso di approfondimento» in cui mostravano per la prima volta una selezione delle collezioni del ’900 che si erano molto arricchite, grazie all’ingresso recente della magnifica raccolta formata da Luigi e Peppino Agrati (500 capolavori dell’arte italiana e internazionale del XX secolo) e da loro stessi donata alle Gallerie d’Italia, dirette da Michele Coppola, «per garantirne la tutela, la valorizzazione e la fruizione pubblica». Era quello un itinerario travolgente tra capolavori di Fontana, Melotti, Manzoni, Burri, Castellani, Robert Ryman, Sol LeWitt, Gerhard Richter, insieme a opere storiche di molti altri maestri del XX secolo, alcuni notissimi, altri meno celebrati, ma tutte accomunate dall’assoluta qualità. 

Da fine maggio a settembre, Luca Massimo Barbero presenta la seconda edizione di «Una Collezione Inattesa. La Nuova Arte degli Anni Sessanta e un Omaggio a Robert Rauschenberg»: un nuovo itinerario attraverso queste collezioni, uniche in Italia per ricchezza, importanza, internazionalità, da lui ordinato con la consueta sapienza nello stimolare dialoghi «inattesi» tra le une e le altre, potenziando così il messaggio di ognuna e in ognuna svelando valenze nuove e insospettate. 

In assoluta anteprima, Luca Massimo Barbero rivela a «Il Giornale dell’Arte» il progetto del nuovo appuntamento che, ci dice, «rispetto alla prima edizione ha una peculiarità: se quella guardava soprattutto alla scultura, al «corpo», questa è invece legata a un momento specifico dell’arte del secolo scorso, che va dal Neo Dada al Minimalismo, all’Arte Pop. La prima fu una vera rivelazione; lo sarà anche questa, perché sarà un’occasione unica per vedere riunite opere che dialogano nel nome della radicalità della ricerca, partendo dai maestri fondatori: Yves Klein, Piero Manzoni, Richard Serra, Carl Andre, tutti rappresentati da opere germinali». 

Come si sviluppa il percorso? 
La mostra occupa il salone d’ingresso e il percorso è ordinato con un’«isola» centrale e con una serie di «stazioni» nelle salette di quell’ambulacro, per così dire, che corre tutt’intorno. Inizia con un «Monocromo blu» di Yves Klein, del 1960, e con un «Concetto spaziale. Attese» bianco di Lucio Fontana, precocissimo anch’esso, del 1959-1960. E di lì si dipana, tutt’intorno, con un dialogo continuo tra i «capostipiti» italiani e quelli americani, da Giulio Paolini (che ricorre in più sale, come una sorta di punteggiatura della mostra), Piero Manzoni (con un «Achrome» del 1958, Intesa Sanpaolo) ed Enrico Castellani, a Robert Ryman, Richard Serra, Robert Mangold, Carl Andre. 

Roy Lichtenstein, «Pennellata gialla e nera (Eat Art)», 1965-66, Collezione Luigi e Peppino Agrati - Intesa Sanpaolo

Questo dialogo sovranazionale, così fitto, è una delle costanti delle sue mostre. 
Ho vissuto in Italia, in Europa e negli Stati Uniti e la mia formazione culturale è fatta di un dialogo serrato tra Europa e America. In una sala, per esempio, mi sono divertito ad affiancare al «Ritratto di Jasper Johns» di Giulio Paolini una serie di lavori di Ed Ruscha, che sebbene da noi non sia così noto negli Stati Uniti è considerato un grande maestro, e una serie di rilievi in piombo di Jasper Johns. Devo ammettere che, costruendo la mostra, per me è stato meraviglioso vedere nascere un’integrazione così felice tra la collezione di Intesa Sanpaolo e la collezione Agrati, molto ricca di autori americani, tutti scelti in «presa diretta» (come il «36 Aluminium Square», 1969, di Carl Andre: tre metri per tre) da Peppino Agrati, che viaggiava spesso negli Stati Uniti per affari e che aveva uno sguardo non solo capace di cogliere il presente ma di intuire il futuro. Sapendo anche stringere amicizie vere con gli artisti più radicali e innovativi di quegli anni. 

Si concluderà il 4 maggio, nelle Gallerie d’Italia-Napoli, la sua mostra «Andy Warhol. Triple Elvis». Vedremo lavori di Warhol anche a Milano? 
La grande sala d’angolo è dedicata all’Arte Pop, e qui ci saranno le tre potentissime serie di Warhol (che erano a Napoli) le «Marilyn», 1967, le «Electric Chairs», 1971, e i «Mao», 1972: tre serie di lavori non solo iconici ma drammatici, se pensiamo che i «Mao» (che Warhol espose alla Galleria Galatea di Torino nel gennaio-febbraio 1973, subito dopo una sua retrospettiva con le serie citate sopra, e altre) sono dell’anno in cui Richard Nixon, dopo la distensione tra i due Paesi seguita a quella che è stata definita la «ping-pong diplomacy», visitò la Cina. Anche questa è una «vanitas», come la maschera di Marilyn e la terribile immagine delle sedie elettriche. Ma quella di Mao è anche una serie che segnò uno spartiacque nel lavoro di Warhol. Al centro, «Averroè III», 1967, di Paolini, con le bandiere di 15 Stati del mondo che si perdono una nell’altra. Ma qui ci sono anche tre piccole «perle» di Roy Lichtenstein, comprate anch’esse da Peppino Agrati «in tempo reale», e c’è James Rosenquist con un’opera del 1966. Il percorso perimetrale si chiude con due «Vesuvius», 1985, di Warhol (due grandi serigrafie della collezione Intesa Sanpaolo) e con un omaggio a Napoli di Francesco Clemente, una carta intelata del 1972 della collezione Agrati. 

Ci sono molte opere su carta in mostra. 
Sì, ho costruito il racconto, così come procedeva allora l’arte americana, con opere pittoriche, litografie, serigrafie. Non c’è «alto» o «basso», ma c’è un continuo lavoro di ricerca. E questo accade anche nel cuore della mostra: un vero colpo di teatro dove, grazie alle opere degli Agrati, che dell’artista erano cari amici, abbiamo voluto rendere omaggio con una piccola monografica a Robert Rauschenberg nei cento anni dalla nascita. Qui, nel Salone Scala delle Gallerie d’Italia Milano, sono riunite ben 26 sue opere, tra combine painting, assemblage, disegni (tra i quali due, rarissimi, del 1962 e 1968) e grafiche. Ci sono cinque magnifiche «Scriptures», 1974, fatte con garza, colla, corda, sabbia, lattine: si tratta di grandi «Combines» rarefatti, poetici, rarissimi e mai più visti da allora, e c’è il grandioso «Glut», 1987, dedicato a Napoli, un assemblage di metallo e targhe automobilistiche che pare una navicella spaziale esplosa, insieme a 20 fra le sue grafiche migliori. Sono opere che si vedono insieme per la prima volta in assoluto e penso di poter dire che un simile percorso, in Italia, ma anche in Europa, sia molto raro. Ma ciò che conta è che oltre al grande impatto visivo, questa è una mostra di ricerca, con lavori importanti non solo per la nomenclatura ma anche per il dialogo serrato e continuo, rivelatorio, che s’instaura tra gli uni e gli altri. 

Piero Manzoni, «Acromo», 1958, Collezione Intesa Sanpaolo

Ada Masoero, 01 aprile 2025 | © Riproduzione riservata

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