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Maurizio Francesconi, Alessandro Martini, Luana De Micco
Leggi i suoi articoliSempre più case e marchi di moda vogliono legare il proprio nome ai beni culturali. Prima le grandi imprese si concentravano soprattutto su monumenti dal sicuro ritorno mediatico: Tod’s e il Colosseo, Fendi e la Fontana di Trevi, Bulgari e la Scalinata di Trinità dei Monti. Ora Calzedonia firma un’operazione provocatoria come la copertura dell’Arena di Verona. Di sicuro l’arte è di gran moda.
L’Arena di Verona sarà coperta grazie a Calzedonia? Il gruppo veronese (che comprende tra gli altri anche i marchi Intimissimi, Tezenis e Falconeri) ha presentato il 31 gennaio i progetti vincitori del concorso da lui stesso finanziato e si è dichiarato pronto a sostenerne l’eventuale realizzazione, per circa 13 milioni di euro. A metà febbraio, Gucci si è visto invece rifiutare la richiesta di sfilare sull’Acropoli di Atene. Immediatamente dopo la notizia, il Parco archeologico della Valle dei Templi di Agrigento ha offerto alla stessa maison già italiana (ora è parte del gruppo del lusso Kering di François Pinault, l’ex Ppr-Pinault-Printemps-Redoute) la propria location come ripiego di lusso, e con risparmio assicurato. In Grecia hanno rifiutato due milioni di euro (Repubblica.it aveva scritto anche di 56 milioni di diritti televisivi, poi smentiti dalla stessa Gucci, che ha confermato soltanto un «progetto di collaborazione culturale a lungo termine»); in Sicilia l’anno scorso si sono invece accontentati di 100mila euro per una cena tra i templi magnogreci voluta da Google. «Il ritorno di immagine è garantito», assicura, senza alcuna remora o dubbio, il direttore del parco archeologico siciliano Giuseppe Parello. Ma due milioni (o anche 56) sono tanti? Sono pochi? È stato un giusto atto di orgoglio rifiutarli, una pubblica dichiarazione contro lo sfruttamento commerciale dell’identità di un bene che è Patrimonio mondiale dell’Umanità, nel quale si identifica un intero popolo come quello greco, seppure stremato dalla crisi? O è stato un gesto meramente ideologico? E l’«offerta-richiesta» degli strateghi della moda è stata forse rivolta al Consiglio archeologico greco nella convinzione che avrebbe di certo acconsentito all’operazione, considerata la necessità assoluta di risorse finanziarie in cui versa? Ebbene, così non è stato: Gucci rimane senza sfilata ai piedi del Partenone e l’Acropoli senza soldi (né statali né privati) per gli improcrastinabili restauri.
D’altra parte, Gucci non è certo il primo marchio che utilizza per i propri eventi un bene culturale noto nel mondo, e quindi facilmente «comunicabile» (la stessa Acropoli aveva ospitato una sfilata di Dior nel lontano 1951). In Italia, l’estate scorsa Fendi organizzò a Roma una sfilata «sull’acqua» della Fontana di Trevi appena restaurata dalla stessa casa di moda, mentre già nel 2007, e sempre a Roma, Valentino festeggiò al Tempio di Venere e usò l’Ara Pacis per la mostra dei primi 45 anni della maison e il suo addio al mondo della moda. Ancora a Roma, lo scorso settembre Bulgari ha organizzato un evento notturno lungo la Scalinata di Trinità dei Monti, anche in questo caso dopo averne finanziato i restauri. Eventi, in tutti i diversi casi, accompagnati da polemiche che nel nostro Paese paiono inevitabili: così era stato a Firenze per le cene nel Cappellone degli Spagnoli di Santa Maria Novella, compreso nel circuito museale comunale (nel 2014, per la banca d’affari Morgan Stanley: 40mila euro) e prima ancora per il Ponte Vecchio (affittato dall’allora sindaco Renzi alla Ferrari) e, nella capitale, per il Circo Massimo, concesso ai Rolling Stones per 15mila euro (tra i motivi di controversia: perché il gruppo ha pagato ben 900mila euro per lo stesso concerto allo Stade de France di Parigi?). Nessuna apparente polemica, invece, in altri Paesi europei, avvezzi ad accogliere eventi privati negli spazi storici e monumentali, musei compresi: dal Beaubourg al Louvre a Parigi, con cene nei pressi della sempre ambitissima Gioconda, dai musei tedeschi che ospitano abitualmente cene business fino ai chiostri della Westminster Abbey che a Londra, lo scorso giugno, ha ospitato per la prima volta una sfilata di moda: proprio di Gucci. «Oggi probabilmente sembra meno compromettente ospitare una mostra piuttosto che una performance o una sfilata, ci spiega Maria Luisa Frisa, critica e fashion curator, direttrice del Corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali all’Università Iuav di Venezia. Non dobbiamo però dimenticare che la moda ha saputo agire in modo straordinariamente efficace nel riqualificare gli scenari e il patrimonio di alcune città italiane: penso alla storia di Pitti Immagine e alla sua capacità di riattivare i luoghi storici di Firenze attraverso sfilate ed eventi. Si può dire che in quel caso la moda ha davvero saputo rileggere la mappa di una città e i suoi luoghi significativi da un punto di vista storico culturale proprio attraverso quello sguardo sempre contemporaneo che qualifica questo sistema commerciale, che è anche una disciplina e una forma di pensiero molto sofisticata».
Chi aiuta chi?
Mecenatismo, utilizzo dell’immagine, reciproco sostegno e mutuo sfruttamento: è del tutto evidente che il rapporto tra arte e moda non è soltanto lusso ed estetica. Certo, è anche la capacità della moda di utilizzare l’arte e la sua storia per trarne spunti, ispirazioni, modelli. Così è sempre stato: celebri sono le collaborazioni tra Elsa Schiaparelli e Salvador DalÍ o Jean Cocteau negli anni Trenta e tra Yves Saint Laurent e il duo François-Xavier e Claude Lalanne nel 1969. Ma questo rapporto si estende al patrimonio storico così come alle professioni contemporanee, compreso il vasto sistema delle industrie culturali creative che ha legami stretti anche con il sistema moda e su cui la stessa Unione Europea sta investendo molto (si veda in particolare il programma della Ecia-European Creative Industries Alliance; www.eciaplatform.eu). Contemporaneamente, gli stilisti attingono e restituiscono: non stupisce quindi che per la sfilata uomo primavera-estate 2016 Dolce & Gabbana si siano ispirati ai temi decorativi della Palazzina Cinese di Palermo (con l’autorizzazione della Soprintendenza) o che Etro dal 2013 collabori con Gaetano Pesce, a cui fornisce i suoi tessuti Paisley per la serie limitata di complementi d’arredo in resina colata «Nobody’s Perfect». Ma è quando il passaggio è opposto, quando cioè è il «sistema moda» a fornire mezzi capaci di vivificare il mondo dell’arte o, ancora, a «utilizzare» il patrimonio e la sua più intima «essenza» (in termini meramente economicisti, ma non solo), che si innesca un meccanismo non scontato e, anzi, particolarmente illuminante su rapporti, ruoli, gerarchie, significati e significanti. È il caso, sempre più evidente, dei marchi di moda italiani e internazionali che si dedicano al restauro del patrimonio artistico, che sponsorizzano mostre temporanee (o le finanziano in toto) o, ancora, che inaugurano musei, fondazioni, residenze e premi per giovani artisti. Lo conferma l’economista Stefano Baia Curioni, vicepresidente del Centro Ask (Art, Science and Knowledge) della Bocconi di Milano: «Le industrie caratterizzate da una forte dimensione simbolica nelle loro produzioni, le imprese del lusso e della moda, si sono mosse tradizionalmente e costitutivamente in una relazione forte con i mercati delle arti e delle produzioni artistiche in senso generale. L’affinità più evidente è connessa alla relazione tra cultura-arte-estetica e dinamiche di acquisizione del capitale simbolico, una relazione che ha informato i mercati delle arti nel loro sviluppo multisecolare. Una relazione le cui caratteristiche tendono a riprodursi nel mercato della moda e del design più avanzato, e che sono ampiamente descritte ad esempio da Pierre Bourdieu. Le aziende della moda, così come quelle, più recentemente, del “food”, hanno sviluppato quindi una tradizione di interventi nel campo dei beni culturali (restauri e restituzioni), attraverso sponsorizzazione intonate in modo vario a scopi commerciali, e nel campo delle arti contemporanee. Gli interventi sistematici dei grandi marchi (al di fuori del sistema moda si pensi ad esempio a Seragnoli a Bologna e a Beretta con Christo sul Lago d’Iseo, Ndr) sono tutti indicatori di una convergenza che in modo fin troppo ovvio rimanda al sostegno reciproco che l’opera d’arte (attuale o passata) e il bene di gran lusso possono sviluppare». «Il sistema della moda può fare molto per i beni artistici, continua Maria Luisa Frisa. Basta pensare ai casi in cui impegno finanziario e progetto di immagine di un marchio si concentrano su elementi che definiscono il patrimonio artistico di un Paese (o addirittura lo riqualificano e lo riprogettano). Penso in Italia alla Fondazione Prada, al rapporto fra Prada e il Palais d’Iéna a Parigi, o al caso del rapporto fra il Colosseo Quadrato all’Eur e Fendi. Non dobbiamo dimenticare che gli interessi commerciali non vanno letti come svincolati da un progetto culturale, e che anzi oggi più che mai è importante per la moda qualificarsi in questa direzione».
Arte e moda sembrano sempre più alla spasmodica ricerca l’uno dell’altro. Chi ha bisogno di chi? È il mondo della moda ad avere in pugno questo rapporto con il mondo dell’arte? È la moda che decide? «Non credo che si arrivi a questo, riflette Maria Luisa Frisa. Piuttosto mi pare significativo sottolineare come la moda sappia intercettare prima di altri sistemi le traiettorie che definiscono la contemporaneità; riesce quindi molto bene a indicare quali sono gli artisti e le attitudini progettuali e culturali che meglio raccontano l’oggi e che riescono a disegnare gli scenari di domani».
Restauro e immagine
In anni recenti, per i grandi marchi i maggiori investimenti e il più sicuro ritorno di immagine sono venuti dal restauro, in particolare di beni monumentali e perlopiù concentrati a Roma o, secondariamente, nel territorio sede dell’azienda finanziatrice. Il Colosseo con i finanziamenti del Gruppo Tod’s, la Fontana di Trevi e il complesso delle Quattro Fontane con l’intervento di Fendi, la Scalinata di piazza di Spagna grazie alla maison Bulgari e il Ponte di Rialto, a Venezia, finanziato con 5 milioni di euro da Otb-Only the Brave di Renzo Rosso, casa madre dei marchi Diesel, Maison Margiela, Marni e Viktor & Rolf. E ancora, lo scorso novembre a Santa Croce di Firenze è stato riposizionato, dopo un lungo restauro finanziato quasi per intero da Prada (350mila euro), il dipinto di Giorgio Vasari «L’Ultima Cena» danneggiato dall’alluvione del 1966. Tutti episodi cui la stampa generalista ha dato ampio rilievo, sviluppati con diversi obiettivi, tempi e impegni finanziari, e differenti fortune.
Più complessa è la vicenda del restauro del Colosseo (25 milioni di sponsorizzazione del gruppo Tod’s di Diego Della Valle, sancita il 27 gennaio 2011 da un accordo con il Mibact a fronte di una situazione critica nella conservazione del monumento statale), che fin dall’inizio dell’iter è stato al centro di polemiche relative al ruolo e alle concessioni al soggetto privato, compreso un intervento della Corte di Conti nel 2016. Ma il cantiere del Colosseo è divenuto anche il principale «testimonial» dell’ArtBonus, il meccanismo promosso nel 2014 dal ministro Franceschini che consente un credito d’imposta del 65% indirizzato a tutti i soggetti, persone giuridiche o fisiche, che investono in manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici, oltre che a sostegno degli istituti e dei luoghi della cultura e dello spettacolo pubblici. Avviato nell’ottobre 2013, il cantiere del Colosseo prevede il restauro di prospetti (conclusi), ipogei e ambulacri, oltre alla realizzazione di nuova impiantistica, cancellate e un centro servizi.
Tra i «grandi finanziatori» dell’ArtBonus, quelli che sull’apposito sito (www.artbonus.gov.it) vengono inseriti nella prima fascia, superiore ai 100mila euro, tra banche, assicurazioni e municipalizzate dell’energia compaiono ben pochi marchi della moda e del lusso. Si distingue Salvatore Ferragamo che, dopo aver contribuito con 600mila euro al riallestimento di alcune sale degli Uffizi, ancora nella sua Firenze ha annunciato l’erogazione di 1,5 milioni tra 2016 e 2018 per il restauro della Fontana del Nettuno di Bartolomeo Ammannati in Piazza della Signoria. «Questa iniziativa con cui intendiamo anche esprimere la gratitudine della nostra famiglia a Firenze, con cui mio padre strinse un inscindibile sodalizio, ci spiega il presidente Ferruccio Ferragamo, comunica un messaggio importante: quanto la collaborazione fra pubblico e privato, nel rispetto dei reciproci ruoli, possa creare progetti coordinati a vantaggio della continua evoluzione qualitativa della città». Per concludere in modo quasi programmatico: «Ci auguriamo che operazioni come questa possano ripetersi sempre di più perché il nostro Paese è ricco di monumenti e luoghi stupendi che meritano di essere restaurati e messi a disposizione di tutti».
Un caso particolarmente significativo è quello di Fendi. Nessuna pubblicità invasiva sul cantiere della Fontana di Trevi (2013-15), riportata all’originario candore e di nuovo visibile da novembre 2015 dopo 17 mesi di restauri: solo una targa ricorda l’impegno finanziario della casa di moda romana, intervenuta «in emergenza» dopo il crollo di vari frammenti dal lato sinistro della decorazione sommitale. «Un restauro così importante non avrebbe potuto essere sostenuto dalla pubblica amministrazione senza il sostanziale apporto della Maison Fendi attraverso un’inedita collaborazione», ha dichiarato il sovrintendente capitolino Claudio Parisi Presicce. Da questa esperienza è nato il progetto «Fendi for Fountains» (2,5 milioni di euro complessivi, di cui 2,18 per la Fontana di Trevi), che ha previsto interventi, a Roma, anche nel complesso delle Quattro Fontane (9 mesi di restauri) e, dallo scorso anno, l’avvio del restauro-manutenzione della Mostra dell’Acqua Paola al Gianicolo, della Fontana del Mosè in piazza San Bernardo, della Fontana del Peschiera in piazzale degli Eroi e del Ninfeo del Pincio. Ma, nel campo del restauro, l’impegno di Fendi è esteso a una collaborazione con l’Iscr-
Istituto Superiore Centrale per il Restauro per realizzare un’area scientifica didattica, finalizzata all’esercitazione degli studenti in ambito diagnostico. «Tutte le iniziative intraprese in questi anni, ci dice l’ad e presidente di Fendi Pietro Beccari, sono volte a sostenere il patrimonio italiano artistico e culturale, che ci sentiamo in dovere di difendere e salvaguardare. Nel prossimo futuro continueremo a investire in operazioni di mecenatismo legate alla città eterna e al suo patrimonio artistico».
Con il Colosseo e la Fontana di Trevi, la Scalinata di Trinità dei Monti è il terzo simbolo di Roma in restauro grazie a mecenati della moda. Per festeggiare i 130 anni, Bulgari ha stanziato 1,5 milioni. I restauri del capolavoro settecentesco di Nicola Salvi sono iniziati nell’ottobre del 2015 e si sono conclusi lo scorso agosto. Nel marzo 2016, si è anche inaugurata l’illuminazione dello scalone monumentale di Palazzo Braschi, sede del Museo di Roma, finanziata sempre dallo storico marchio romano di alta gioielleria (ora di proprietà Lvmh).
Prima viene il marchio
Da anni ormai le case di moda hanno dato forma a istituzioni stabili, capaci non soltanto di conservare e promuovere la propria produzione storica (spesso partendo dall’archivio storico aziendale) ma anche di aprirsi alla nuova produzione. Sono i grandi «mausolei», direttamente intitolati ai marchi, segno di «una visione consolidata e tradizionale della comunicazione d’impresa», ci dice Cristiano Seganfreddo, imprenditore culturale, direttore del Premio Marzotto e direttore artistico di Krizia e dello Spazio Krizia di Milano. In questi casi il logo del marchio di moda è strettamente connesso con le opere contenute all’interno degli spazi museali in un sistema virtuoso di comunicazione che aiuta gli uni (le maison e i loro spazi espositivi) e gli altri (gli artisti in essi contenuti o, più in generale, le mostre). La Fondazione Prada nasce nel 1993 ed è oggi presente sia a Milano (con la grande sede dell’ex distilleria Società Italiana Spiriti riconvertita da Rem Koolhaas e il recente Osservatorio dedicato alla fotografia e ai linguaggi visivi, in Galleria Vittorio Emanuele II) sia a Venezia (Ca’ Corner della Regina, il palazzo sul Canal Grande, già della Biennale, la cui rifunzionalizzazione ha confermato una vocazione contemporanea della città lagunare, finora nelle mani del solo François Pinault con Palazzo Grassi e Punta della Dogana, entrambi ridisegnati da Tadao Ando). La Fondazione Prada è specializzata in mostre di arte contemporanea ma anche rassegne cinematografiche, conferenze ed eventi legati all’architettura e al design. Sempre a Milano ha sede l’Armani/Silos (inaugurato nel 2015), uno spazio che raccoglie una selezione ragionata delle creazioni di Giorgio Armani suddivisa per temi che ne raccontano l’estetica e la storia. A Firenze hanno invece sede due musei che fanno capo a storiche maison cittadine: Ferragamo e Gucci. Il Museo Ferragamo nasce nel 1995 con la volontà di far meglio conoscere al pubblico la figura di Salvatore Ferragamo, il più famoso designer di scarpe della storia, mentre il Museo Gucci è stato inaugurato nel 2011 ed è suddiviso in sale a tema ispirate alla maison di pelletterie affiancate dal Contemporary Art Space, in cui trovano spazio alcune installazioni selezionate in collaborazione con la Collezione Pinault. La Collezione Maramotti a Reggio Emilia, inaugurata ufficialmente nel 2007 e da allora attivissima (cfr. questo numero di «Vernissage», p. XIV), trae le sue origini negli anni Settanta quando Achille Maramotti, all’epoca patron del gruppo Max Mara, decise di costituire una raccolta d’arte contemporanea «aziendale» che fosse anche aperta al pubblico gratuitamente. Da allora opera come committente e produttore a sostegno degli artisti d’oggi (anche, dal 2006, grazie al Max Mara Art Prize), con scelte sorprendenti e mai basate sulle tendenze dominanti (cfr. questo numero di «Vernissage», p. XIV). A Roma, la Maison Fendi ha la sua sede nel Palazzo della Civiltà Italiana (il Colosseo quadrato, finalmente riqualificato) grazie a un contratto firmato nel 2013 con Eur Spa della durata di 15 anni: al primo piano un’area espositiva ospiterà mostre aperte al pubblico. Diversa, per molti versi, è la Fondazione Nicola Trussardi, nata nel 1996. È un’istituzione non profit, non concentrata sul marchio e sul patrimonio aziendale (da cui è legalmente svincolata), benché costituisca comunque un formidabile strumento di promozione nei circuiti dell’arte contemporanea internazionale. Dopo anni di mostre nella sede di Palazzo Marino alla Scala, è uscita per aprirsi a luoghi anomali. «Dal 2003 ci siamo inventati un’istituzione nomade, ci spiega la presidente Beatrice Trussardi, che portasse l’arte direttamente a contatto con le persone. Non un museo o una collezione, ma un’istituzione dinamica, capace di parlare alla società intercettandone i pensieri, i desideri, le inquietudini. Per questo l’identità della Fondazione non è mai stata legata a un marchio, ma a un modo di agire, che mantenesse un equilibrio delicato tra instabilità e coerenza. Oggi, dopo aver organizzato per dieci anni progetti site specific in luoghi inaspettati di Milano, la nostra identità in evoluzione ci porta ad affrontare in modo nuovo lo stesso tipo di sfida: raccontare il mondo che ci circonda affrontando di petto temi spinosi e luoghi comuni, creando un terreno di riflessione condiviso, una piattaforma aperta ai diversi contributi per immaginare un nuovo modello di società». Non è quindi casuale il tema della prossima mostra, «La terra inquieta», curata da Massimiliano Gioni per la Fondazione Trussardi, di cui è direttore artistico dal 2002, ma visitabile dal 28 aprile alla Triennale di Milano.
Poi la promozione
Nel 1985 veniva allestita a Firenze, nel piano nobile di Palazzo Strozzi, la prima mostra sulla vita e l’opera di Salvatore Ferragamo. Il progetto espositivo, che storicizzava un marchio in piena attività, era stato preceduto nel 1983 dalla retrospettiva su Yves Saint Laurent, la prima a celebrare un grande stilista vivente, curata da Diana Vreeland al Metropolitan Museum di New York. La mostra su Ferragamo seguiva di due anni l’apertura della Galleria del Costume di Palazzo Pitti a Firenze diretto da Cristina Aschengreen Piacenti: il primo museo statale in Italia e, l’unico, dedicato alla storia dell’abito e dell’accessorio. Da allora molto è stato fatto sul fronte espositivo (ma non nel campo dei musei: in Italia ancora manca un vero museo nazionale sul modello di Parigi e New York). Oggi non stupisce che grandi mostre di moda non siano soltanto ospitate al Costume Institute di New York o al Victoria and Albert Museum di Londra (al momento irraggiungibili per qualità della programmazione) ma anche in sedi italiane, da Venaria Reale («Moda in Italia: 150 anni di eleganza», 2011-12, e «Roberto Capucci. La ricerca della regalità», 2013-14) al MaXXI di Roma. Proprio qui, la mostra «Bellissima» (2014-15), dedicata alla nascita dell’alta moda italiana tra 1945 e 1968, è stata sostenuta come «main partner» da un grande marchio del lusso come Bulgari. Ancora a Roma, si deve invece a Etro la sponsorizzazione della mostra «Frida Kahlo» alle Scuderie del Quirinale (2014), «in un connubio di ispirazioni, ricerca e passioni comuni». Così recita la comunicazione della società, che spiega: «La partnership della maison in questo progetto si lega a un profondo amore per il linguaggio dell’artista e per il suo Messico. Elementi celebrati nella collezione donna “Sud” del 2004 da Veronica Etro e nella rievocazione della tradizionale Charrería nella collezione uomo primavera-estate 2014 di Kean Etro. Parallelismi fra arte e moda di cui Etro si fa naturale portavoce». E il cerchio si chiude, in una continuità di scambi e interessi tra arte e moda. Più recentemente, a Venezia, è stata Chanel a sostenere la bella mostra dedicata alla sua fondatrice a Ca’ Pesaro «Culture Chanel. La donna che legge» (chiusa lo scorso 8 gennaio).
Sempre sul fronte espositivo, ma in un’ottica più continuativa e coordinata, Tod’s (al di là del grande ritorno mediatico del restauro del Colosseo) supporta la programmazione espositiva del Pac di Milano. La Fondazione Furla, dopo la conclusione dell’esperienza del Premio Furla (nato nel 2000 «in un momento storico in cui in Italia mancava qualsiasi tipo di supporto per gli artisti emergenti», sottolinea la presidente Giovanna Furlanetto e giunto nel 2015 alla sua decima edizione), sostiene nel 2017-18 un ciclo di progetti in partnership con il Museo del Novecento di Milano. «Nel tempo il nostro progetto si è evoluto, continua Giovanna Furlanetto. Oggi servono nuove sinergie istituzionali tra pubblico e privato. Da qui nasce l’idea di un sodalizio inedito per l’Italia, che mette insieme un museo pubblico, una fondazione privata e un centro indipendente, Peep-Hole, condividendo expertise e risorse, con l’obiettivo di portare un contributo vivace e innovativo».
Sul fronte della committenza di opere site specific, Fendi conferma il momento d’oro di Giuseppe Penone, che a Roma è contemporaneamente alla Gagosian Gallery e nel Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur, nella sede e per conto della Maison Fendi (cfr. «Vernissage», n. 188, gen. ’17, p. XI). Al maestro dell’Arte povera Fendi ha commissionato l’opera «Foglie di Pietra» che si inaugurerà ad aprile in largo Goldoni, dove via del Corso incrocia via dei Condotti. Proprio davanti al negozio della griffe svetteranno due alberi in bronzo che reggono un blocco di marmo di 11 tonnellate.
La prevalenza del contenuto Forse davvero qualcosa sta cambiando. E se alcuni episodi rischiano di mostrare un rapporto arte e moda eccessivamente semplificato e nel segno del mero «utilizzo» (se non vero e proprio sfruttamento dell’immagine), il quadro generale mostra da più parti una volontà di contenuti. «Il rapporto impresa-cultura, chiarisce Cristiano Seganfreddo, è completamente cambiato negli ultimi dieci anni. Logomania e locandina, party e invito, ovvero la presunta sponsorizzazione classica è diventata desueta e stanca. Oggi l’impresa si sta trasformando in un vero e proprio produttore culturale e le aziende più evolute hanno superato il confine tra i due mondi. Il futuro del rapporto impresa-cultura è dunque in una condivisione continua di opportunità e contenuti, di luoghi e soggetti, di strategie e comunicazione. La vera discriminante è e sarà sempre la qualità del contenuto e non l’etichetta sotto la quale viene messa. È evidente che il mondo della cultura deve aggiornarsi e perdere gli ultimi pregiudizi per aprirsi e regolare nuove formule di relazione con i cittadini contemporanei, con strumenti online e offline. Le nuove imprese devono essere come editori contemporanei». È Stefano Baia Curioni a chiarire ulteriormente: «Un’analisi più attenta del complesso rapporto tra moda e arte deve riconoscere come questo legame non debba essere inteso solo sul piano del sostegno commerciale o simbolico. I casi più riusciti esprimono un interesse specifico, culturale, e una competenza da parte del privato che vanno ben oltre ogni calcolo strategico (peraltro di dubbia rendicontabilità). Esiste poi un piano più organico che indica la presenza di culture di impresa variegate, tra cui si riconosce anche una forte propensione all’umanesimo. Ovvero una responsabilità sociale che ridefinisce i confini stessi del’impresa. In questo ambito il ricordo va immediatamente ad Adriano Olivetti, ovviamente, o a figure come Antonio Ratti, che hanno coniugato nell’impresa e nel proprio stile imprenditoriale un esplicito amore per l’arte. Un interesse profondo e coltivato, che si è irradiato in molte scelte imprenditoriali. In questo caso più che di sponsorizzazioni si parla di specifiche politiche culturali, capaci di andare oltre il singolo evento o progetto. Questi sono casi direi più interessanti e plausibilmente più evolutivi, perché capaci di addensarsi anche sul piano della crescita e della modernizzazione sociale. La messa in luce di questo obiettivo vale più della sollecitazione di sponsorizzazioni con facilitazioni fiscali o normative. Sono queste le vene pulsanti della contemporaneità: sebbene rare, parlano di una competenza strategica superiore».
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