Gianfranco Ravasi
Leggi i suoi articoli«La nostra parola iniziale si chiama bellezza. È la bellezza disinteressata, senza la quale il Vecchio Mondo era incapace di intendersi. Essa, però, ha preso congedo in punta di piedi dal mondo moderno degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidigia e alla sua tristezza». Così iniziava forse con un certo pessimismo il suo capolavoro teologico Gloria uno dei massimi esponenti della teologia del Novecento, Hans Urs von Balthasar (1905-88), un personaggio che successivamente riprenderemo, segnando una linea di demarcazione tra la classicità cristiana con la successiva tradizione estetico teologica e la modernità.
Il divorzio tra bellezza e fede si è consumato in tante forme diverse. Da un lato, in ambito ecclesiale si è spesso ricorsi al ricalco di moduli, di stili e di generi delle epoche precedenti, oppure ci si è orientati all’adozione del più semplice artigianato o, peggio, ci si è adattati alla bruttezza che imperversa nei nuovi quartieri urbani e nell’edilizia aggressiva innalzando edifici sacri simili, come sarcasticamente diceva padre David M. Turoldo, a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e davanti a lui vengono allineati i fedeli. Per fortuna non sempre avviene così, ed è stata forse l’architettura ad attestare un primo sussulto di originalità e di creatività, sia pure a livello di eccezione (pensiamo a Le Corbusier, Aalto, Michelucci, Meyer, Siza, Ando, Botta fino agli stessi Piano e Fuksas).
D’altro lato, però, l’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le figure e tutto quel «grande codice» che era stata la Bibbia (definizione coniata da William Blake e codificata nel noto saggio di Northrop Frye). Spesso ha abbandonato come pericolosa ogni proposta di un messaggio, considerandolo un capestro ideologico, si è consacrata a esercizi stilistici sempre più elaborati e provocatori, talora si è rinchiusa nel cerchio dell’autoreferenzialità, si è affidata a una critica esoterica incomprensibile ai più, e si è asservita non di rado alle mode e alle esigenze di un mercato artificioso ed eccessivo.
Il primo fu Paolo VI
Tuttavia, ritessere un dialogo tra arte e fede è stato avvertito come una necessità da parte dello stesso magistero ecclesiale recente. Ha iniziato proprio Paolo VI incontrando gli artisti nella cornice emblematica della Cappella Sistina il 7 maggio 1964. In quell’evento memorabile, segnato da un discorso di suggestione assolutamente unica, egli aveva proposto una nuova alleanza tra fede e arte, nella consapevolezza che l’anelito profondo dell’artista è quello di «carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità». Un anno dopo, l’8 dicembre 1965 in piazza San Pietro, i Padri a chiusura del Concilio Vaticano II, tra i vari messaggi rivolti alle diverse categorie sociali e professionali, indirizzavano queste parole agli artisti: «Il mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione. E ciò grazie alle vostre mani».
Parecchi anni dopo, nella Pasqua del 1999, il 4 aprile, era stato Giovanni Paolo II a riannodare il filo di questo dialogo, un filo decisamente infranto o almeno allentato, con la sua famosa Lettera agli artisti: «La vostra arte contribuisca all’affermarsi di una bellezza autentica che, quasi riverbero dello Spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli umani al senso dell’eterno». A dieci anni di distanza da quel testo e a quarantacinque dal gesto di Paolo VI, il 21 novembre 2009, Benedetto XVI aveva convocato di nuovo, nell’ambito emozionante della Sistina col suo glorioso fondale michelangiolesco, 300 artisti di ogni disciplina, provenienti da tutto il mondo per «ricordare che la storia dell’umanità è movimento e ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa» e di questo credenti e artisti sono, ciascuno a loro modo, testimoni e artefici.
Egli poi continuava con una riflessione teorica più vasta che merita di essere riproposta: «La bellezza, da quella che si manifesta nel cosmo e nella natura a quella che si esprime attraverso le creazioni artistiche, proprio per la sua caratteristica di aprire e allargare gli orizzonti della coscienza umana, di rimandarla oltre se stessa, di affacciarla sull’abisso dell’Infinito, può diventare una via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio. L’arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza, con i temi fondamentali da cui deriva il senso del vivere, può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità. Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, l’attesta un incalcolabile numero di opere d’arte. […] Si parla, in proposito, di una via pulchritudinis, una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica. [...] La via della bellezza ci conduce, dunque, a cogliere il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità».
Il coraggio di «nuovi simboli»
Papa Francesco, infine, nell’Esortazione Apostolica degli esordi del suo pontificato (2013), Evangelii Gaudium (n. 167), fondandosi sull’asserto agostiniano secondo il quale «noi non amiamo se non ciò che è bello» (De musica VI, 13, 38), ha ribadito la necessità di riproporre quell’atteggiamento di apertura presente nella grande tradizione cristiana. Ha, così, esaltato «l’uso delle arti nella stessa opera evangelizzatrice, in continuità con la ricchezza del passato, ma anche nella vastità delle sue molteplici espressioni attuali, al fine di trasmettere la fede in un nuovo linguaggio parabolico». Proprio per questo il papa è consapevole che «bisogna avere il coraggio di trovare i nuovi segni, i nuovi simboli, una nuova carne per la trasmissione della Parola, le diverse forme di bellezza che si manifestano in vari ambiti culturali, comprese quelle modalità non convenzionali di bellezza, che possono essere poco significative per gli evangelizzatori, ma che sono diventate particolarmente attraenti per gli altri».
Alla radice di questa esigenza di confronto che ha ripreso a svilupparsi c’è l’incessante testimonianza della sororità tra arte e fede perché entrambe (sia pure secondo tipologie diverse) non aspirano a rappresentare il visibile superficiale ma l’Invisibile che si cela in quel visibile, per usare un noto motto di Paul Klee. Fondamentale è, perciò, la riflessione sull’estetica teologica già esperita nel Medioevo attraverso la cosiddetta «via pulchritudinis», una scelta artistica ed estetico teologica citata dal papa, declinata nei secoli non in modo rigido, bensì secondo canoni molteplici, pronti a intercettare la diacronia della cultura nel flusso della storia. Si pensi solo, per esemplificare, all’evoluzione architettonica dalla basilica paleocristiana al Romanico, dal Gotico al Rinascimentale, dal Barocco al neoclassico fino ad approdare necessariamente alla nostra contemporaneità.
Ed è appunto in quest’ultima tappa che si colloca a livello emblematico generale la Collezione di Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani, che quest’anno celebra i cinquant’anni dall’inaugurazione (il 23 giugno 1973), voluta da Paolo VI. In questa linea ci permettiamo di introdurre un’attestazione personale: nella mia qualità allora di capo dicastero del Pontificio Consiglio della Cultura avevamo realizzato la partecipazione della Santa Sede alla Biennale d’Arte di Venezia nel 2013 e nel 2015 e a quella di Architettura del 2018, con dieci cappelle progettate da altrettanti architetti di tutto il mondo nel bosco della Fondazione Giorgio Cini sull’isola di San Giorgio a Venezia. Si cercava, così di superare quel divorzio tra arte e fede, che aveva dissociando la bellezza dalla liturgia, la dimensione estetica da quella pastorale e teologica.
Un’«estetica teologica»
A questo punto vorremmo aggiungere una riflessione di taglio teologico. Fu l’elaborazione della teologia contemporanea a superare l’esclusività di una concezione secondo la quale solo il discorso formale e razionale e la pura speculazione sistematica abbiano cittadinanza nell’orizzonte delle discipline religiose. In passato, infatti, si considerava l’estetica (che, tra l’altro, nella sua matrice greca rimanda al «comprendere», aisthánomai) come un approccio inferiore e marginale che si affidava alla nebula dei simboli e dei miti, rispetto al cielo cristallino della riflessione teologica sistematica. Ora la situazione è cambiata e una delle figure significative della svolta è stato certamente il già evocato teologo Hans Urs von Balthasar. La sua opera si presenta così imponente e complessa da essere stata comparata a un mosaico policromo dalle figure molteplici e dai mille tasselli, o anche a un labirinto i cui meandri si inoltrano nei campi della teologia, della filosofia, della mistica, della letteratura e delle arti.
Per il nostro tema rimane ovviamente capitale la già citata Herrlichkeit (Gloria, 1961-69), che in ben sette tomi sviluppa un’«estetica teologica». Si noti bene: non una «teologia estetica» alla Herder o Chateaubriand, votata a elaborare un cristianesimo estetico o estetizzante, capace di promuovere la potenza immaginativa e di solleticare il sentimento o di generare opere d’arte. Quella di von Balthasar è, invece, un’«estetica teologica» per cui è la Rivelazione stessa, anzi, il suo soggetto fondante, Dio, a essere e a irradiare la bellezza, percepibile e coinvolgente.
Come egli stesso dichiarava in apertura al suo monumentale progetto, «quest’opera costituisce il tentativo di sviluppare la teologia cristiana alla luce del terzo trascendentale, di completare, cioè, la considerazione del verum e del bonum mediante quella del pulchrum. [...] Si tratta di riportare la riflessione teologica sulla strada principale, abbandonata, senza per questo voler affermare che la prospettiva estetica debba sostituire, per il futuro, nella conduzione della teologia, quella logica ed etica. I trascendentali infatti non sono assolutamente separabili e la dimenticanza di uno di essi non può che avere un effetto distruttore sugli altri».
Von Balthasar avrebbe poi sviluppato gli altri due trascendentali, cioè la verità e l’etica, nelle altre parti della sua trilogia, la Teologia (il verum) e la TeoDrammatica (il bonum). La «forma» bella suprema, che noi percepiamo («Wahrnehmung», percezione della verità) e contempliamo («Schau», visione), è presente nella figura storica di Cristo, Verbo di Dio fatto uomo e quindi rivelazione perfetta e sperimentabile della gloria e della bellezza trascendente divina. Egli è eikôn, «immagine» visibile del Dio invisibile, come affermava l’apostolo Paolo (Colossesi 1,15).
La prospettiva metodologica adottata da von Balthasar è stata da allora seguita da altri teologi che si sono affacciati su tutte le discipline artistiche, anche su quelle inedite e ignote ai secoli passati. Si pensi alle istallazioni, alla Video art, al cinema, alle serie televisive, alle piattaforme informatiche, alla musica elettronica, alla techno-art che attinge persino all’intelligenza artificiale e così via. Certamente molte spoglie di questi nuovi linguaggi cadranno e si dissolveranno e si genereranno nuovi modelli. Tuttavia è necessario che con essi si crei in ambito ecclesiale una sintonia di ascolto e di critica nello spirito di un autentico incontro-confronto. Ed è ciò che lentamente si sta compiendo in un ritrovato dialogo tra «grammatiche» espressive differenti.
Questo confronto partecipa, infatti, alla struttura radicale del messaggio cristiano che ha nell’Incarnazione il suo cuore.
Come affermava l’evangelista Giovanni nel mirabile inno di apertura del suo scritto, il Lógos diviene sárx (1,14), il Verbo divino si unisce e si rivela nella «carne» e nelle parole della storia, la Bellezza suprema e trascendente si incontra e rivela il suo bagliore nel bello dell’arte di ogni tempo. Sarebbe, perciò, auspicabile che in futuro si possa in qualche modo attuare quanto suggeriva nell’VIII secolo un grande apologeta delle immagini sacre durante l’epoca dell’iconoclasmo, Giovanni Damasceno: «Se un pagano viene e ti dice: “Mostrami la tua fede!”, tu portalo in una chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri».
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