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Redazione GDA
Leggi i suoi articoliPotendosi facilmente trasmettere da un porto all’altro attraverso persone o merci infette, la peste risulta quasi endemica nel bacino del Mediterraneo per oltre tre secoli, e le segnalazioni di focolai sulle diverse sponde di quel mare (o nei territori a esso prossimi) si ripetevano con una certa regolarità ogni tre-cinque anni.
In compenso il contagio creava nelle aree di volta in volta colpite quella che oggi si chiama l’immunità di gregge, vaccinando di fatto l’intera generazione dei superstiti. Sembra dimostrarlo la cadenza delle pestilenze che afflissero Genova a intervalli di 25-50 anni tra la fine del XV e la metà del XVII secolo: 1499-1506, 1527-30, 1579-80, 1598-99, 1625-26, 1656-57, ancorché la penultima non sia stata ufficialmente dichiarata.
A questo riguardo è una fonte locale a informarci che il contagio arrivò da Palermo, dove la peste infuriava già dal 1624, tra l’altro bloccando nel capoluogo siculo Van Dyck, e che nonostante le 16.432 vittime, solo poco meno delle precedenti epidemie, «si tenne secreta tale infirmità, sotto simulazione d’altro morbo grave, per ordine publico per raggione di buon governo». Anche allora infatti l’esplicita ammissione del contagio comportava gravi conseguenze economiche per via del bando che avrebbero disposto gli altri Stati.
La più grave, per numero di morti, fu comunque l’ultima, e per questo è stata qualificata come la «grande» peste. In quell’occasione la notizia che il morbo stava dilagando a Cagliari e a Napoli giunse nel capoluogo ligure all’inizio del 1656, e per quanto il Magistrato di Sanità abbia presto preso tutte le «dilligenze» consuete in queste occasioni, estendendo di seguito l’interdetto ai commerci anche nei confronti del porto di Civitavecchia, tali cure non si rivelarono sufficienti, dato che allora non era possibile sottoporre allo stesso tipo di vigilanza le banchine del porto e il resto della costa.
Sicché per quanto ai molti genovesi rientrati in patria da Napoli in giugno nel tentativo di sfuggire al contagio sia stata imposta la quarantena al lazzaretto (costruito nella prima metà del Cinquecento nell’allora sobborgo orientale della Foce) e per quanto in luglio non venne concesso l’attracco al convoglio di galee pontificie che trasportava verso la Francia l’ex regina Cristina di Svezia, il primo caso di peste si riscontrò verso la metà di quello stesso mese nel villaggetto di Sturla (circa 7 chilometri a levante di Genova), dove erano direttamente sbarcati dei marinai del luogo, di cognome Fontana, provenienti dalla Sardegna.
Venne nominato un commissario straordinario per quella località e nel contempo la si isolò, ma era ormai troppo tardi, non solo perché c’erano già stati contatti tra abitanti di Sturla e cittadini genovesi, ma anche perché di lì a poco contribuì a moltiplicare il contagio il fatto che il morbo scoppiato nello stesso lazzaretto venne diffuso in città da due degli addetti che vi prestavano servizio.
Alla metà di agosto la situazione sembrava comunque sotto controllo, tanto che «molti signori che hanno ville in Albaro (località contigua a Sturla, Ndr) vanno a goderle», ma in realtà si era solo all’inizio della tragedia, dato che la mortalità, dopo una prima impennata tra ottobre e dicembre, e un sensibile calo tra gennaio e maggio 1657, con l’inizio dell’estate arrivò a circa mille vittime al giorno per circa tre settimane consecutive.
Un sacerdote ebbe allora a scrivere nel registro dei morti della sua parrocchia «da oggi non si segnano più i nomi da tanti che sono», e non bastando alla sepoltura nemmeno le grandi fosse delle fondamenta dell’Albergo dei Poveri, di cui era stata appena avviata la costruzione, venne l’autorizzazione, allora normalmente proibita dalla Chiesa, a bruciare i cadaveri per strada.
Il numero di circa 55mila morti computato in occasione di questa pestilenza può non sembrare significativo rispetto ai 150mila circa calcolati per Milano nel 1630 o ai 240mila circa di Napoli nello stesso anno dell’epidemia genovese. Ma la differenza a scapito del capoluogo ligure è data dalle percentuali riportate negli studi: a Napoli sopravvisse circa il 50% della popolazione, a Milano tra il 40 e il 50%, mentre a Genova solo il 25% circa!
Come è facile immaginare, una tale moria ebbe riflessi anche sulla storia dell’arte: non solo per più di un anno restarono bloccati molti cantieri, ma tra le vittime vi furono anche diversi artisti: tra i nomi più conosciuti i pittori, Orazio De Ferrari, Bartolomeo Biscaino e Giovan Paolo Cervetto, tutti morti nel 1657. Gli ultimi due erano entrambi allievi di Valerio Castello, che morì a sua volta, ma quando l’epidemia era cessata già da diversi mesi: è probabile che il contagio ne sia stato la causa, ancorché indiretta. Sopravvisse invece il non più giovane Domenico Fiasella che di quel luttuoso evento ha lasciato un’immagine tanto monumentale quanto drammatica e lugubre.
Morirono di peste, peraltro, anche illustri membri del ceto dirigente cittadino che si erano distinti in qualità di committenti e collezionisti, come Giovan Battista Balbi, Giovan Filippo Spinola, che da pochi anni era riuscito a portare a segno il clamoroso acquisto della grande «Cena» di Paolo Veronese dipinta per il refettorio del Convento benedettino di San Nazaro e Celso a Verona (oggi conservata nella Galleria Sabauda di Torino), Giovan Battista Raggi e Ansaldo Pallavicino (1621-59, quello che fu ritratto infante da Anton Van Dyck nel 1625 ca), entrambi clienti di Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto. E sarà proprio quest’ultimo a scrivere come la morte di tali mecenati avesse «affatto privata questa città di chi si dilettava e poteva spendere in pitture di qualità».
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