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La raffigurazione di san Sebastiano, opera di Benozzo Gozzoli, nella chiesa di Sant'Agostino a San Gimignano (particolare)

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La raffigurazione di san Sebastiano, opera di Benozzo Gozzoli, nella chiesa di Sant'Agostino a San Gimignano (particolare)

Epidemie nell'arte in Italia | TOSCANA

L’epidemia arriva a cavallo: impossibile sfuggirle. Per le raffigurazioni della peste bisogna cominciare dal Decamerone

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Redazione GDA

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Chissà quante volte, visitando chiese e luoghi della cultura in Toscana e non solo, ci siamo imbattuti in immagini che avevano a che fare con i grandi flagelli dei secoli scorsi, le epidemie di peste, o quel che era. E se allora le abbiamo percepite come remote, o addirittura non abbiamo capito qual era il racconto che intendevano trasmetterci, l’emergenza odierna risveglia la nostra sensibilità e ce le fa sentire improvvisamente, drammaticamente attuali.

Riguardiamole dunque, queste pitture, cronache visive a volte simboliche e a volte naturalistiche (e tremendamente efficaci), spesso vie di fuga attraverso la fede cristiana, che contro la pandemia schiera i suoi santi e invoca direttamente la Madonna e la Trinità.

Ma prima di visitare idealmente luoghi e opere rappresentativi in Toscana, concediamoci una deviazione a Parigi, dove la Bibliothèque National de France conserva il più antico esemplare del Decamerone di Giovanni Boccaccio illustrato con un ciclo completo d’immagini (Département des manuscripts, It. 63). Perché è dal Decamerone che occorre cominciare, naturalmente: e per una volta non cedere al fascino delle novelle moraleggianti, avventurose, umoristiche o erotiche narrate dai dieci giovani nel loro privilegiato buen retiro in campagna, ma sfogliare le pagine iniziali, dove a tinte forti Boccaccio descrive la peste del 1348, che tante conseguenze ebbe sulla società del tempo.

Il manoscritto, copiato da Ludovico Ceffini nel 1427, apre con l’allegoria della Morte: donna scheletrica e scarmigliata, su grama cavalcatura, che impugnando la falce calpesta tre cadaveri insepolti, in abiti cittadini. L’insetto, la serpe e lo scorpione intorno prefigurano il loro destino di selvatica corruzione. L’allegoria è nota. Già nel Trecento i grandi Trionfi della morte, anche precedenti la peste (basta ricordare quello di Buffalmacco del 1340-43 nel Camposanto di Pisa) avevano mostrato l’umanità succube del nero cavaliere, che tutti sovrasta e stermina.

Se restiamo ancora un attimo nella Bibliothèque, un altro esemplare del Decamerone ci porta in tutt’altro clima estetico. Il manoscritto Fr. 239, tradotto in francese nel 1414, reca nel magnifico frontespizio miniato la narrazione del flagello: in una Firenze fiabesca in stile gotico, vuota come una piazza metafisica, si seppelliscono i morti avvolti nel sudario, si prega nelle chiese e soprattutto si cerca una via di fuga dal contagio, uscendo dalle mura per raggiungere ville e castelli nel contado.

Assai più cruda la narrazione allegorica della peste del 1348 nel manoscritto Croniche delle cose di Lucca (dal 1164 al 1424) di Giovanni Sercambi conservato nell’Archivio di Stato della città toscana. L’origine del flagello è nell’ira divina e diabolici arcieri alati scoccano le frecce pestilenziali uccidendo in massa l’umanità peccatrice. La metafora che assimila piaghe e bubboni a ferite di frecce soprannaturali è antica, basta ricordare Omero e l’epidemia scoppiata per l’oltraggio fatto da Agamennone ad Apollo, il dio arciere: «Nove giorni volâr pel campo acheo / le divine quadrella» (traduzione di Vincenzo Monti, 1825) o, se preferite «Ben nove giorni sul campo volaron le frecce del Nume» (traduzione di Ettore Romagnoli, 1923).

Il grande storico fiorentino contemporaneo, Giovanni Villani, non poté invece raccontare la peste del 1348, perché ne morì lasciando interrotta la sua Cronaca; la continuò il fratello Matteo, convinto anche lui che le cause della moria non fossero né le sfavorevoli congiunzioni astrali né le piogge velenose, ma piuttosto il «divino giudicio secondo la disposizione dell’assoluta volontà di Dio». 

Un’illustrazione al tratto in un manoscritto tre-quattrocentesco dell’Archivio di Stato di Piacenza mostra l’intero, funesto decorso con criterio in parte simbolico e in parte naturalistico: mentre la peste mortale fa strage, il malato è assistito e curato nel suo letto e il defunto viene portato via dai necrofori.

Quasi un secolo dopo a Siena un pittore, forse Giovanni di Paolo, dipinge una biccherna (una delle tavolette in legno impiegate per rilegature i libri dei registri della magistratura contabile detta appunto Biccherna), che serba e rinnova l’atroce ricordo dell’epidemia: il nero demonio su un cavallo nero ha mietuto vite con la falce che tiene al fianco e ora scocca i dardi del contagio per fare altre vittime. Neppure chi si chiude in casa può sfuggire ai tiri del suo arco e, mentre già il lugubre cavallo fa irruzione nella stanza, i giovani intenti a giocare a dadi soccombono, feriti dalle frecce.

Da questi esempi e da altri che si potrebbero portare, emerge dunque che nell’universo dell’arte figurativa si creano anche prima della peste del 1348, e si stabilizzano dopo di essa, gli elementi di un codice simbolico chiaro e comprensibile a tutti: un essere invisibile che viene evocato in forme malefiche (o la morte scheletrita, o il nero spirito del morbo, o una sintesi di entrambi) imperversa a cavallo, vale a dire muovendosi in lungo e in largo con una velocità ben superiore a qualsiasi possibilità umana di fuga. Colpisce con frecce, ovvero sparge il contagio, per poi mietere con la falce, ovvero condurre a morte gli ammalati. Come proteggersi?

Essendo per lo più inefficaci i rimedi medici e farmaceutici, nonché le pratiche terapeutiche e le pozioni dalle bizzarre ricette, ci si affidava a Dio con la preghiera, anche tramite specifiche devozioni.

Oltre alla Madonna, avvocata dell’umanità, e in caso di epidemia spesso le Madonne venerate nei grandi santuari, come quello dell’Impruneta, venivano scoperte e portate in processione, si pregavano i santi affinché intercedessero, con la loro potente e ascoltata preghiera, presso la divinità irata. Due in particolare sono i santi che, avendo sofferto nella loro carne piaghe e ferite, venivano invocati in caso di peste: san Sebastiano e san Rocco, il primo un martire delle prime persecuzioni, il secondo un pellegrino francese vissuto nel Trecento, dopo la peste famosa, ma in tempi di altre malattie endemiche.

San Sebastiano, un militare romano d’alto grado, fu martirizzato da Diocleziano nel 304 a.C. per la sua conversione al Cristianesimo: denudato e legato a un palo, fu crivellato di frecce e lasciato morente. Dopo la guarigione, grazie alle cure di santa Irene, tornò a proclamare la sua fede e fu quindi decapitato. Le più belle raffigurazioni di san Sebastiano della Toscana (senza dimenticare l’affascinante quadro di Sandro Botticelli, migrato però a Berlino) si debbono a Benozzo Gozzoli e sono entrambe a San Gimignano, che fu duramente colpita dalla pestilenza nel 1464.

Benozzo raffigurò il suo primo san Sebastiano nella chiesa di Sant’Agostino su incarico degli Agostiniani, per i quali dipinse a fresco anche il ciclo in diciassette scene con «La vita di sant’Agostino»attorno all’altare maggiore (1463-67). Nell’urgenza di ottenere la protezione del santo, in soli sedici giorni nell’agosto 1464 Benozzo sull’altare della chiesa rappresentò con sapiente effetto illusionistico una finta pala con tanto di predella e di cornici.

La scena espone un elaborato concetto di preghiera e di intercessione. Dal basso, i fedeli supplichevoli pregano san Sebastiano, che in segno di benevolenza li accoglie sotto il mantello come a far loro da scudo contro gli strali della pestilenza scagliati da Dio Padre, che impugna una lunga lancia, e dalle coorti degli angeli, ministri della sua ira. Alla soglia del Paradiso, a petto scoperto intercedono per l’umanità Gesù, nel nome del sangue versato per la Redenzione, e la Madonna, nel nome del latte con cui ha nutrito il figlio di Dio.

Cerniera fra la Terra e il Cielo è san Sebastiano, in piedi su un podio, frontale come un’icona ed elegante come un principe, che riceve da due angeli la corona del martirio mentre prega egli stesso per la fine del contagio. Ed ecco che alle sue spalle, nella zona di Cielo prossima alla Terra, già si manifesta il miracolo invocato, perché gli angeli intercettano e spezzano i dardi lanciati dall’alto. Le preghiere, nelle speranze dei committenti, dei fedeli e certo anche del pittore, hanno sortito il loro effetto.

L’invenzione, un unicum originalissimo, certo fu ispirata dagli Agostiniani nel segno della loro fine sapienza teologica. Si attiene invece all’iconografia consueta il san Sebastiano nella Collegiata di Santa Maria Assunta, un autentico ex voto dipinto due anni dopo la peste nella Cappella dei Santi Fabiano e Sebastiano, che risaliva all’epidemia del 1348. Qui il santo, coperto solo dal perizoma, è trafitto da una tale quantità di frecce da presentarsi letteralmente crivellato e irto di asticelle. Nell’alto dei cieli appaiono fra schiere angeliche Gesù benedicente e la Madonna in preghiera, mentre il martire, aitante e imperturbabile, viene incoronato.

Quanto a san Rocco, la sua fu invece un’esperienza diretta del morbo: dopo aver superato le epidemie di peste del 1358 e del 1361 a Montpellier, nelle città toccate nel suo pellegrinaggio e a Roma si dedicò alla cura degli appestati in vari ospedali. Suo tipico attributo, oltre al cane che lo accompagna, è la piaga aperta su una coscia.

Per san Rocco ci rivolgeremo a un grande pittore cortonese, Bartolomeo Della Gatta, che ne dipinse forse uno in San Domenico a Cortona (l’affresco è frammentario) e di certo due grandi tavole centinate, entrambe nel Museo Statale di Arte Medievale e Moderna di Arezzo. L’una, del 1479,  raffigura «San Rocco davanti alla Fraternita dei Laici», l’altra «San Rocco allontana da Arezzo il flagello della peste». Il santo, figura eroica d’intercessore, campeggia contro la veduta lontana della città e addirittura ne percorre le strade, mentre dall’alto Dio ascolta le sue preghiere.

Non si può concludere questa breve sequenza d’immagini se non approdando a Firenze, nel cuore stesso del suo centro storico, nella sede della venerabile Arciconfraternita della Misericordia a pochi passi dal Battistero e dal Duomo.
Qui si trova l’unica o comunque la più dettagliata immagine della peste del 1630, quella dei manzoniani Promessi sposi, che si diffuse nel Nord e nel centro Italia fra il 1629 e il 1633. La veduta raffigura la piazza del Duomo, in particolare lo slargo davanti alla Misericordia (con la facciata ancora affrescata) e vari altri edifici adiacenti alle Canoniche, in seguito scomparsi.

In questo spazio si esercita l’azione caritatevole dei Fratelli della Compagnia: soccorrono gli appestati, trasportano gli ammalati, raccolgono i morti, tra cittadini sbigottiti e cani randagi. Per le figure piccole e il gusto macchiettistico il quadro è da collocare nel seguito di grandi disegnatori e incisori del primo Seicento a Firenze, come Remigio Cantagallina, Stefano della Bella, Jacques Callot, attenti agli aspetti della vita quotidiana.

La maestosa bellezza della cittadella sacra, col campanile di Giotto e la Cupola del Brunelleschi dorati dalla luce del tramonto, contrasta con l’angosciosa animazione che coinvolge i soccorritori, gli ammalati, gli astanti. Un potente richiamo alla sublime indifferenza nei confronti della transitoria sofferenza umana dei monumenti, creati per l’eternità.


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Redazione GDA, 26 marzo 2020 | © Riproduzione riservata

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