Guglielmo Gigliotti
Leggi i suoi articoliDa 45 anni l’attività artistica di Cesare Pietroiusti (Roma, 1955) è ispirata a tre grandi principi: che l’io diventi un noi, che l’opera valga come terreno d’incontro e che il pubblico assurga a coautore dell’evento creativo. In altri termini, Cesare Pietroiusti è uno dei capostipiti italiani dell’arte relazionale. Nel 1977 fonda con Sergio Lombardo e altri il gruppo Jartrakor, dedito a un’arte intesa come stimolo per eventi comportamentali. A fine anni ’80 costituisce il gruppo di Piombino. Tra il ’97 e il 2001 promuove il Progetto Oreste, presente anche alla Biennale di Venezia del ’99 come rete variabile di artisti cooperanti. Poco dopo inizia l’insegnamento allo Iuav di Venezia. Tra le sue imprese, la creazione di una galleria d’arte che vendeva solo oggetti immateriali, e di un negozio che vendeva banconote vere, in cambio di sguardi. Nel ’15 è tra i promotori del Forum per l’arte contemporanea italiana. Dal luglio ’18 al giugno ’22 è stato presidente dell’Azienda speciale Palaexpo, che gestisce, per conto del Comune di Roma Capitale, il Palazzo delle Esposizione, il Macro - Museo d’arte contemporanea di Roma, e ambienti dell’ex Mattatoio.
Invitato a esporre alla Quadriennale di Roma del 1996, ha a sua volta invitato a esporre altri artisti nello spazio a lei deputato. Che cosa mise in moto questa rinuncia creativa?
All’epoca la mia sensazione fu che la mostra (la Quadriennale) non avesse una vera visione curatoriale, ma che tutto il dibattito si risolvesse nella lista degli artisti invitati (160!). La prima reazione fu di rifiutare l’invito, poi pensai di allargarlo, condividendo lo spazio destinato al mio lavoro con gli artisti che stimavo e che non erano stati invitati. In seguito, durante una discussione all’interno del collettivo dei «Giochi del senso e/o non senso» (di cui facevo parte), emerse l’idea di «invitare» alla mostra chiunque volesse, artisti o no. Quindi direi che non si trattava di una «rinuncia», piuttosto di un’opera che era riflessione critica sul tema reale di quella mostra: la questione inclusione-esclusione rispetto a un (supposto) dispositivo legittimante per gli artisti italiani. Alla fine più di duecento persone parteciparono, attraverso questo meta-invito, alla Quadriennale.
Nei «pensieri non funzionali» del ’98 invitava a svolgere azioni illogiche e paradossali: che cosa nasconde il non-senso?
Sensorialità, significato, direzione: «senso» è parola che consente multipli approcci. Come molti filosofi hanno detto, non c’è pensiero senza sensazione, né mente senza corpo. Allo stesso modo, senso e nonsenso coesistono necessariamente. Certo, se associamo il senso a una determinata funzione economicamente prestabilita o moralmente orientata, la ricerca artistica sembrerà spesso «insensata». Ma se pensiamo alla libertà come possibilità di creare spazi d’azione e di pensiero fuori dalle griglie sociali, ideologiche o morali, allora il paradossale, l’insensato, il contradditorio, diventano un salto di livello: un po’ come rispondere all’invito a una mostra senza senso (curatoriale) con un controinvito includente gli esclusi.
Lei ha contrapposto ai criteri del mercato dell’arte l’idea del dono: regala disegni in cambio della comprensione profonda del gesto. Quali sono i veri valori dell’arte?
La distribuzione gratuita di opere non è motivata da una «buona» generosità in opposizione al «cattivo» mercato dell’arte. Quello del dono è un terreno tutt’altro che semplice. Si pensi a quello che dice Derrida nel suo bellissimo Donare il tempo: il «vero» dono, senza contraccambio, senza condizionamento, non esiste, se non in dimensioni inspiegabili, come quella della vita stessa. Mi interessa molto di più l’innesco di processi critici. Se ce ne sono, quello è il valore. Quasi tutti i miei disegni in distribuzione gratuita contengono istruzioni che ne limitano il libero possesso (la «proprietà» garantita dal mercato): sono disegni che devi dar via se qualcuno te li chiede, oppure che diventano falsi se li vendi, oppure che devi distruggere per «completarli», e così via. Mettono in questione l’idea del dono, oltre, ovviamente, alle regole del mercato, per creare situazioni relazionali indecidibili, piccoli cortocircuiti logici. Anni fa ne ho trovato uno in vendita su eBay, per cento euro. L’ho comprato. E poi l’ho rivenduto (in busta chiusa e corredato dalla documentazione della transazione telematica), in una divertente asta in una galleria di Torino, a... 2.001 euro. Non sono contro il mercato: mi piace giocare con le regole, invece che solo obbedirvi.
Le sue opere e operazioni sono il frutto di sottili riflessioni sulla natura dell’arte: che cos’è l’arte in verità?
La creazione di possibilità. Il salto di livello. Un gioco sociale che fa uso delle regole. L’elaborazione della contraddizione. La contromossa che costringe a rivedere gli schemi conoscitivi. Forse, la messa in questione dell’idea stessa di verità. Mi dirà: e la bellezza? È un’arma a doppio taglio: formidabile strumento di accesso insieme al sensibile e al pensabile, e di risonanza gioiosa fra i diversi piani dell’essere, la bellezza, nella società delle immagini (pubblicità, media, internet ecc.), è diventata la più efficace delle trappole per trasformare gli umani in consumatori tristi, alla inesausta ricerca dell’acquisto che li renderà felici. Ecco perché l’avanguardia artistica sembra talvolta privilegiare il «brutto»...
C’è soluzione di continuità tra la sua formazione di medico psichiatra e la sua attività di artista?
Credo di sì. Le tematiche psicologiche, e lo studio della psicoanalisi e della psicologia relazionale (termine usato dagli psicologi molto prima che dai teorici dell’arte contemporanea), sono evidentemente presenti nel mio lavoro di artista. Anni fa dicevo: passare dalla psichiatria all’arte significa occuparsi delle stesse cose, ma liberandosi dallo schema diagnosi-terapia. Significa vedere, nelle azioni e nei comportamenti, non «sintomi», ma, casomai, invenzioni. Non casi clinici, ma casi unici.
L’opera per lei non è un oggetto compiuto, ma un dispositivo mutevole e «aperto»: quali sono i limiti dell’opera «chiusa», dell’opera intesa in senso tradizionale?
Premetto: amo, con una sorta di devozione filiale, sacrale, opere d’arte «storiche» come gli affreschi di Masaccio al Carmine, «La Tempesta» di Giorgione, l’«Annunciazione» di Simone Martini o quella di Antonello da Messina. Li considero oggetti preziosissimi e intoccabili. Però sono anche convinto che i processi trasformativi (spontanei o volontari, ammesso che esista una vera differenza) sono inevitabili e necessari alla vita stessa. Anzi, sempre semplificando, direi che la vita è l’energia che determina i processi di trasformazione. A volte, il tentativo di preservare l’opera da tutte le possibili mutazioni, sia fisiche sia di significato, è una strategia di evitamento di rischi ma anche di possibilità. Chi l’ha detto che la «distruzione» di un’opera non sia essa stessa una «forma» che l’arte assume? Il disegno di De Kooning cancellato da Rauschenberg non è soltanto un geniale lavoro concettuale. È un bellissimo disegno che, guardato bene, ti insegna anche come guardare.
Nel 2019, al MAMbo, ha scandito la sua retrospettiva con oggetti-anno che partivano dalla sua infanzia, giungendo, attraverso le opere d’arte, al presente. Ha considerato la sua vita come un’unica grande performance esistenziale, peraltro in fieri?
Credo sia così per tutti e per chiunque. È bello e divertente trovare connessioni, ritorni, sviluppi imprevisti che, nel corso di un’esistenza, avvicinano (un po’ come le «pieghe» nel tempo di cui parlano i fisici quantistici) cose, pensieri, relazioni, fra loro lontani. La mostra di Bologna era un tentativo di mettere in dialogo opere d’arte con non opere, per esempio produzioni infantili oppure eventi che, seppur significativi, restano fuori dalle mostre e dai curricula. Quella mostra, e il libro che l’accompagna, è stato un modo di mettere su uno stesso piano oggetti e racconti, esposizione e narrazione. Mi piace l’idea che anche l’opera più riuscita possa essere un elemento di una storia, e viceversa. Non capolavori (artistici o letterari) ma strumenti di un percorso, appunto, in fieri.
Quali sono i ricordi più belli della sua esperienza da presidente dell’Azienda speciale Palaexpo?
Molti, ed è ingiusto sceglierne solo alcuni. Per quanto riguarda Palazzo delle Esposizioni direi «Manifesto», la mostra di Julian Rosefeldt e la sfida (che molti anni fa Sartogo aveva sperimentato con l’allestimento di «Vitalità del negativo») di stravolgere la pesante architettura neoclassica del Palazzo. E poi il «Teatro anatomico» di «Sublimi anatomie» che ha evidenziato la possibilità di coinvolgere il visitatore in una modalità sinergica tra esposizione, formazione e performance. Riguardo al Macro, direi la sensazione di stare assistendo, con il Museo per l’Immaginazione Preventiva, allo sviluppo di un progetto che molti, nel mondo, seguiranno in futuro. Per il Mattatoio, che dire? Ho sempre sognato un luogo che fosse aperto alla ricerca e alla sperimentazione, alla formazione laboratoriale e alla presentazione al pubblico, di quel campo largo e transdisciplinare, che chiamiamo «arti performative». Il Master in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Roma, il progetto di residenze di «Prender-si cura», il festival «re-creatures» (ricordo solo, fra tanti, i due incredibili spettacoli di Simone Aughterlony), le mostre-azioni di «Dispositivi sensibili», i laboratori per bambini: tutto ciò dimostra che il Mattatoio, pur con molte difficoltà e incomprensioni, può rappresentare uno straordinario esperimento di coinvolgimento della città in un progetto di ricerca internazionale di eccellenza. E dopo tre anni di lavoro, questa primavera abbiamo visto arrivare migliaia di giovani. Tutto ciò non è avvenuto tanto per merito mio, ma, in primo luogo, grazie al lavoro delle curatrici e dei curatori: al Palaexpo, in questi anni, si è formata una «squadra» di ottimo livello.
Ha conosciuto da dentro la macchina istituzionale pubblica: che cosa ha scoperto?
Che le potenzialità (risorse economiche, spazi, intelligenze) sono inibite da regolamenti, norme amministrative, cavilli, interdizioni, vincoli. È assurdo che un’istituzione culturale che è finanziata interamente da soldi pubblici sia costretta a investire gran parte del tempo delle persone a risolvere questioni burocratiche, richiedere permessi, assumere consulenti per preparare relazioni che nessuno leggerà, pagare altre entità della stessa amministrazione per ottenere servizi che dovrebbero essere garantiti. E poi, non è giusto che chi lavora tanto e bene sia trattato come chi non dimostra alcun interesse. Bisogna avere il coraggio di dirlo: il campo della produzione e della ricerca artistica deve essere meritocratico. Spesso, nell’istituzione pubblica, si ha l’impressione che chi vuole lavorare, ricercare, sperimentare, invece di essere incoraggiato, venga trattato come un piantagrane.
Quali consigli darebbe al nuovo presidente Marco Delogu?
Pazienza, attenzione, determinazione.
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