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Una fotografia di Felipe Romero Beltrán nel libro «Bravo»

© Felipe Romero Beltrán 2025, cortesia di Loose Joints

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Una fotografia di Felipe Romero Beltrán nel libro «Bravo»

© Felipe Romero Beltrán 2025, cortesia di Loose Joints

Felipe Romero Beltrán e lo spazio liminale del Rio Bravo

Il fotografo colombiano, residente a Parigi, nel suo nuovo libro Bravo indaga la tensione tra corpi e ambiente in un luogo di migrazione

Dopo Dialect, selezionato come libro dell’Anno agli Aperture-Paris PhotoBook Awards 2023, Felipe Romero Beltrán presenta una nuova pubblicazione intitolata Bravo, edita da Loose Joints e Fundacíon Mapfre. L’autore colombiano, residente a Parigi, è un nome di cui sentirete parlare sempre più spesso: vincitore del Paul HufAward 2023, grazie al quale il suo lavoro è stato esposto al Foam di Amsterdam nel 2024, quest’anno è in lizza per il Prix d’Elysée, uno dei premi più prestigiosi del settore.

Romero Beltrán si distingue nel panorama contemporaneo per un approccio unico alla fotografia documentaria, caratterizzato da un coinvolgimento a lungo termine con le comunità rappresentate e, soprattutto, da una rielaborazione delle convenzioni narrative del genere. Le sue immagini, spesso messe in scena, evocano una quiete insolita nella fotografia di stampo documentaristico. L’atmosfera è rarefatta, ma non per questo meno carnale: i soggetti sono infatti sorprendentemente vivi e veri, pur nell’artificio delle loro pose.

Questo nuovo progetto si sviluppa lungo i 270 chilometri del fiume Rio Bravo, al confine tra lo Stato di Coahuila, in Messico, e gli Stati Uniti. Romero Beltrán indaga questo luogo di migrazione e costante tensione identificando in esso uno spazio liminale, dove l’identità politica e personale si intreccia con la geografia del territorio. All’interno del libro, il fiume diventa un protagonista silenzioso: pur esercitando un’influenza importante sulle persone che lo vivono, che spesso si trovano in attesa di una traversata incerta, raramente appare nell’inquadratura. Come nel resto della produzione artistica di Romero Beltrán, anche in questo progetto la ritrattistica assume una valenza politica, assorbendo sulla propria superficie la resilienza, la stanchezza e la speranza dei migranti.

Articolato in tre capitoli («Endings», «Bodies» e «Breaches») il libro «sfida la semiotica della classificazione», ampliando lo sguardo non solo ai volti e ai corpi dei migranti, ma anche agli ambienti che abitano, interni ed esterni, dai quali emerge con forza la fragilità e l’immobilità che caratterizzano le identità al confine.

Abbiamo intervistato Felipe Romero Beltrán per saperne di più.

Ci può raccontare come sviluppa i suoi progetti? Pianifica meticolosamente ogni dettaglio in anticipo o lascia spazio all’improvvisazione?
Anche se non sembra, lavoro in maniera piuttosto caotica. Certo, cerco sempre di costruire una struttura prima di iniziare, in modo da avere la libertà di sperimentare nel campo concettuale politico che mi interessa, ma una volta che la struttura del progetto è pronta, mi smarrisco nel processo fotografico.


In che misura le persone che ritrae influenzano il processo e il risultato finale del suo lavoro? Come si configura la vostra collaborazione?
La collaborazione è fondamentale per qualsiasi pratica artistica. Nel mio caso, di solito fotografo persone a me vicine o che ho conosciuto al di fuori di dinamiche lavorative. L’immagine diventa così una delle conseguenze di una relazione precedente al progetto stesso. C’è una vicinanza fisica, come si può vedere in alcune delle mie immagini, che crea una percezione di intimità contrapposta ad uno stile fotografico più veloce e casuale. In progetti passati ho utilizzato specifiche modalità fotografiche, come, ad esempio, in Dialect (2020-23) nel quale creavo ricostruzioni di eventi passati riportati nel presente.

Parliamo di «Bravo». Come è nato questo progetto e quanto tempo ha richiesto la sua realizzazione?
Il progetto è iniziato nel 2020-21, quando ho visitato alcuni amici nella zona. Avevo già lavorato su un fiume in precedenza, il fiume Magdalena in Colombia. C’era qualcosa del Rio Bravo che mi attraeva particolarmente, e così ho cominciato a visitare sempre più spesso i miei amici, fino a quando ho iniziato a lavorare sul progetto.

I fiumi sono un tema ricorrente nella sua pratica. Cosa la attira in questi spazi liminali? 
I fiumi sono elementi geografici carichi di significati politici, a volte in quanto confini territoriali, ma anche in quanto condizione necessaria alla vita. La nostra esistenza stessa è profondamente connessa al loro flusso.

In che modo il formato del libro ha contribuito a plasmare la forma finale del lavoro?
Credo che il progetto sia il libro o, in alcuni casi, le opere che vengono esposte. Ciò significa che la forma finale delle immagini è contemporaneamente il contenuto delle immagini stesse.
Il progetto è diviso in tre capitoli, apparentemente distinguendo tra interni, corpi ed esterni.

A proposito di questa divisione in capitoli, ognuno dedicato a una categoria differente: interni, corpi ed esterni. È come se lei stesse decostruendo una frase nei suoi elementi grammaticali, ma in questo caso non si tratta del linguaggio verbale bensì di quello fotografico. Cosa ne pensa?
Esattamente. La divisione in capitoli isola i motivi fotografici e allo stesso tempo enfatizza le ricorrenze visive che ho documentato. Nella lettura classica della forma documentaria, questi elementi si fonderebbero insieme per costruire una narrazione.

Nell’intervista inserita nel libro, lei afferma che i suoi progetti sono carichi di «silenzio», senza testi di accompagnamento per le immagini. Come pensa che l’osservatore si confronti con il suo lavoro? Lascia deliberatamente spazio all’interpretazione o c’è un’altra intenzione dietro questa scelta?

Credo che una fotografia non possa dire nulla, o almeno non in modo verbale. È qui che risiede il potere delle immagini. È una tecnologia molto più antica della comunicazione verbale e, in questo senso, la fotografia è solo la conclusione culturale di un gesto che esiste da migliaia di anni. Per questo cerco sempre di lasciare le immagini in silenzio e, per quanto possibile, di renderle non informative, in senso giornalistico.

Secondo lei, quali sono le piattaforme dove la fotografia documentaria può prosperare oggi? Dove dovrebbero guardare i fotografi per trovare un pubblico? E più in generale, qual è il ruolo della fotografia documentaria oggi?
È una domanda molto complessa. Onestamente, non lo so: è qualcosa su cui sto riflettendo proprio ora. Quello che posso dire è che l’immagine fotografica sta attraversando un momento molto interessante. Le categorie tradizionali, stabilite soprattutto nel corso del XX secolo, si sono espanse in una vasta gamma di pratiche coinvolgenti, ma anche profondamente ibridate con altre discipline.

La copertina del volume

Rica Cerbarano, 18 marzo 2025 | © Riproduzione riservata

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