Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image

Wim Wenders e Sebastiao Salgado. Copyright_Donata_Wenders. Courtesy_Polka_galerie

Image

Wim Wenders e Sebastiao Salgado. Copyright_Donata_Wenders. Courtesy_Polka_galerie

Fotogrammi di umanità e umiltà: l'eredità di Sebastião Salgado nel racconto di Wim Wenders

Raramente l’obiettivo del regista nato a Düsseldorf nel 1945 si era messo in maniera così incondizionata al servizio dello sguardo di un altro artista come è avvenuto con Salgado

Matteo Cocci

Leggi i suoi articoli

Sono passati poco più di dieci anni dal 20 maggio 2014, quando Il sale della terra di Wim Wenders venne presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, dove ricevette una Menzione Speciale, per poi essere nominato agli Oscar del 2015 nella categoria Miglior documentario. Con questo film il regista tedesco – celebre per il tocco surreale con cui in passato ritrasse realtà tragiche, come quella della capitale tedesca negli anni ’80, di cui in Il cielo sopra Berlino (1987) mostrava ancora tutte le cicatrici inferte dalla Seconda Guerra Mondiale – rendeva omaggio allo straordinario patrimonio di immagini realizzate in alcuni decenni da Sebastião Salgado, fotografo umanista brasiliano di fama mondiale, scomparso lo scorso 23 maggio.

La sua è stata una vita dedicata a fornire testimonianza delle violenze e delle ingiustizie perpetrate nei confronti dei più deboli e degli sconfitti – tra cui lo stesso pianeta Terra –, ma non per questo privati della loro dignità, anzi raccontati in tutto il loro eroismo dal crudo bianco e nero prediletto dall’artista. La grandezza di Salgado – che, dopo gli studi in economia, scoprì la fotografia grazie alla moglie Lélia Deluiz Wanick, conosciuta all’università di Vitória, in Brasile – emerge in tutto il suo potere comunicativo proprio nel documentario diretto da Wenders in collaborazione con Juliano Ribeiro Salgado, uno dei due figli del fotografo sudamericano.

Non era la prima volta che Wenders – che fu protagonista, tra gli anni ’60 e ’80, della nascita del Nuovo Cinema Tedesco, con cui una nuova generazione di autori denunciava lo stato di crisi della cinematografia nazionale auspicando l’avvento di cambiamenti radicali, necessari a riportare il pubblico in sala – dedicava film a personalità artistiche di spicco: da registi immortali come Nicholas Ray (Lampi sull'acqua - Nick's Movie, 1980) e Yasujiro Ozu (Tokyo-Ga, 1985) – quest’ultimo omaggiato implicitamente da Wenders anche nel più recente Perfect Days (2023), in cui sono evidenti le influenze dell’estetica contemplativa tipica del cineasta giapponese –, a maestri di altre discipline come lo stilista Yohji Yamamoto (Appunti di viaggio su moda e città, 1989) e la coreografa Pina Bausch (Pina, 2011).

Raramente però l’obiettivo del regista nato a Düsseldorf nel 1945 si era messo in maniera così incondizionata al servizio dello sguardo di un altro artista come è avvenuto con Salgado. Ne Il sale della terra la voce fuori campo di Wenders si può ascoltare solo in apertura, mentre il suo volto si può scorgere fugacemente a fianco del fotografo in alcuni frame. Per il resto, a dominare la scena sono gli spettacolari scatti di Salgado, che il film segue nei suoi pellegrinaggi tra la valle del Rio Doce in Brasile, a Parigi, in Antartide e al Circolo polare artico, in Nuova Guinea e in Amazzonia, in Etiopia e  in Ruanda, in Centro America e in Siberia, alla ricerca di elementi naturali, come ghiacciai, foreste, mari in tempesta – al cospetto dei quali l’uomo si rivela in un tutta la sua fragilità e, al tempo stesso, nella sua follia distruttiva –, così come delle tracce di fenomeni devastanti, che da sempre accompagnano la storia dell’uomo, come guerre, carestie, migrazioni, catastrofi ambientali.

Se per alcuni versi l’approccio di Wenders alla produzione ultra-quarantennale di Salgado può apparire come deficitario di un vero sguardo autoriale, laddove la cinepresa si limita, per la maggior parte del film, a seguire in modo sommesso l’instancabile attività del fotografo, per altri la scelta del regista risulta come null’altro che un gesto di umiltà, un defilarsi per lasciare parlare la magniloquenza dell’immagine fotografica – arte cui Wenders, autore egli stesso di diverse serie di scatti esposte in tutto il mondo, è fortemente legato – che, nel suo fissarsi  nel tempo e nello spazio, descrive la vicenda umana e naturale con un’onestà e una forza che nemmeno la settima arte, combinando suono e immagini in movimento, a volte è in grado di esprimere. A maggior ragione se la mano che preme il pulsante di scatto, mettendo in azione l’otturatore e di conseguenza lasciando che la luce raggiunga il sensore della macchina – non a caso Wenders ricorda all’inizio del film che fotografare deriva dalla sintesi dei termini greci φῶς (phōs), ovvero luce, e γράφειν (gráphein), che significa disegnare –, è quella di un maestro come Salgado.

 

Matteo Cocci, 26 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

Il regista iraniano ha vinto la Palma d’Oro con il suo ultimo lavoro, «It Was Just an Accident» (2025)

Fino al 31 giugno, la galleria Tommaso Calabro propone due mostre nel suo nuovo spazio nella Grande Mela

Il direttore racconta attività e progetti dei suoi primi mesi alla guida del museo torinese. A partire dall'acquisizione di un raro manifesto originale disegnato da Aleksandr Rodčenko per «La corazzata Potëmkin» e di un progetto sui «manifesti d’artista»

Fotogrammi di umanità e umiltà: l'eredità di Sebastião Salgado nel racconto di Wim Wenders | Matteo Cocci

Fotogrammi di umanità e umiltà: l'eredità di Sebastião Salgado nel racconto di Wim Wenders | Matteo Cocci