Matthew Holman
Leggi i suoi articoliBendata e legata, una donna lotta per liberarsi da un basamento. Le camere mortuarie sono piene. Accovacciato su un’impalcatura, un Klansman (un membro del Ku Klux Klan, Ndr) scaglia dall’alto una Bibbia e un crocifisso, mentre un altro sale una scala e fa oscillare un gatto a nove code. Queste immagini lottano per trovare spazio nel capolavoro del Realismo sociale di Philip Guston, «The Struggle against Terrorism» (1934-35), un affresco realizzato a Morelia, in Messico, insieme ai suoi migliori amici Reuben Kadish e Jules Langsner. Troppo monumentale per essere smontato dal muro dell’attuale Universidad de San Nicolás e spedito a Londra, le immagini in movimento del murale sono proiettate a colori su un’intera parete del museo. È un arazzo dell’umanità più valorosa e più depravata, un collage serpeggiante di forme plumbee che ci ricordano i pesanti costi pagati dagli innocenti in tempo di guerra.
Come molti dei dipinti di Guston, il murale parla della «violenza nel mondo, da quando sono vivo», qualcosa di universale, qualcosa di cui «tutti fanno esperienza». «Philip Guston» è la mostra rivelazione dell’autunno di quest’anno alla Tate Modern (fino al 25 febbraio 2024), curata da Michael Wellen con Michael Raymond. È un’impresa mastodontica che ha riunito più di 100 opere di una carriera cinquantennale straordinariamente eclettica. Amato come il colorista più lussureggiante dell’Espressionismo astratto, Guston (1913-80) è stato prima di tutto un pittore che ha sostenuto senza sosta lo scopo sociale dell’arte moderna.
Figlio di rifugiati ebrei fuggiti dai pogrom in Polonia nel 1905, Guston nacque a Montreal e crebbe a Los Angeles, dove frequentò il liceo con Jackson Pollock. Le tragedie successive segnano gli anni della formazione dell’artista. Nel giugno del 1930 il padre Leib si impiccò nel portico posteriore della casa di famiglia, per la vergogna di essersi ridotto a lavorare come straccivendolo. Nel 1932, un’auto si ribaltò e schiacciò, uccidendolo, l’amato fratello Nat. Nello stesso anno, simpatizzanti fascisti della polizia di Los Angeles armati di tubi di piombo e pistole assaltarono una mostra a North Hollywood e distrussero uno dei dipinti murali di Guston che protestava contro il famigerato caso degli Scottsboro Boys (nove adolescenti afroamericani accusati, ingiustamente, in Alabama di violenza sessuale nei confronti di due giovani prostitute bianche su un treno nel 1931, Ndr). Gli attentatori spararono agli occhi e ai genitali delle figure dipinte.
Queste esperienze si riversano come vernice bagnata nei dipinti di Guston: corde del boia, nodi e mazze della mafia popolano molte opere, mentre figure spettrali lacerano silenziosamente il tessuto sociale. In «Martial Memory» (1941) ragazzi smarriti o orfani raccolgono detriti dalla strada per usarli come armi mentre infuria una guerra non visibile nel dipinto; tenendo in mano bastoni rotti, cartone e bidoni della spazzatura, i bambini di Guston raccolgono tutto ciò che possono per proteggersi. Questo periodo tumultuoso della prima carriera dell’autodidatta Guston viene affrontato con attenzione in una piccola sala decentrata in apertura della mostra. Due opere giovanili, «Female Nude with Easel» (1935) e «Nude Philosopher in Space-Time» (1935), sono esposte per la prima volta nel Regno Unito. In questa accoppiata straordinariamente onirica, i due oli si specchiano mentre le figure nude sulla destra, ognuna con il volto rivolto verso il basso, guardano oggetti che rappresentano l’arte e l’anatomia.
Si nota immediatamente l’influenza dell’accostamento surreale di Giorgio de Chirico di cose che non dovrebbero esistere insieme, così come la struttura compositiva caratteristica del mito di Guston, Piero della Francesca, e il sereno simbolismo del pittore toscano di corpi soli al mondo. Una vetrina che espone materiale d’archivio e ritrovato dimostra il precoce impegno di Guston a favore della giustizia sociale e dell’antifascismo, e contro il Ku Klux Klan. Questo suo attivismo ci porta al potente dipinto contro la guerra, «Bombardment» (1937), che è la visione di Guston dell’incursione aerea su Guernica da parte della Luftwaffe nazista. Se il dipinto di Picasso sullo stesso tema sposta il trauma di donne e animali oltre il piano dell’immagine, la versione di Guston arriva dritta a noi: utilizzando il formato del tondo rinascimentale, con un’esplosione al centro, è un’immagine universale sulla sofferenza indiscriminata dei civili durante i bombardamenti.
Come il resto della sua cerchia newyorkese, alla fine degli anni Quaranta Guston abbandona il Realismo sociale per una sontuosa astrazione che si diletta con le gioie della pittura come la luce, i rossi cadmio e i gialli ocra. «The Return» (1956-58) e «Native’s Return» (1957) sono tra i più grandi capolavori dell’Espressionismo astratto, con titoli che suggeriscono il ritorno a casa. Ma Guston rimaneva sempre fedele a sé stesso e ignorava la logica secondo la quale la pittura si muove nella storia su un unico binario. «C’è qualcosa di ridicolo e avaro nel mito che ereditiamo dall’Arte astratta, disse Guston, all’apparenza contro sé stesso, che la pittura sia autonoma, pura e per sé stessa». All’epoca della guerra del Vietnam, si guardò in faccia e si chiese: «Che razza di uomo sono io, che me ne sto seduto a casa, leggo le riviste, vado in preda a una furia frustrata per ogni cosa… E poi vado nel mio studio ad adattare un rosso a un blu?».
Alla Tate Modern è come se fossimo nello studio con Guston, a vivere questa crisi di fede, mentre attraversiamo un’anticamera buia e torniamo a un vecchio soggetto: il Klan, ma non come prima. Se i Klansmen degli anni Trenta erano chiaramente un nemico da combattere, qui si rilassano con le sigarette, dipingono autoritratti e vanno in giro per la città. Sono quasi come noi. Affrontando questo tema per una mostra alla Marlborough Gallery di New York nel 1970, Guston si sentì ammonito dai suoi devoti coetanei astrattisti, come un profeta «scomunicato da un patto». Il suo caro amico, il compositore Morton Feldman, non gli rivolse più la parola.
Ora arriviamo all’elefante in veste bianca e alla cancellazione della prima riproposizione di questa mostra nel settembre 2020 dopo l’omicidio di George Floyd da parte della polizia. All’epoca, la Tate Modern fu messa in riga dalla National Gallery of Art di Washington affinché rinunciasse alla sua retrospettiva coorganizzata, fino a quando «il potente messaggio di giustizia sociale e razziale che è al centro dell’opera di Philip Guston non potrà essere interpretato più chiaramente». Il curatore della Tate per il progetto espositivo, Mark Godfrey, si è dimesso per protesta. Indignato, un coro di artisti e critici ha sostenuto che il «potente messaggio» di Guston è più che mai necessario e che il pubblico dovrebbe essere in grado di decidere da solo. I direttori dei musei si sono schierati e hanno detto che la società non era pronta; come si sbagliavano.
Certo, ci si potrebbe chiedere: queste opere non umanizzano coloro che compiono crimini d’odio? «Ho quasi cercato di immaginare di vivere con il Klan, ha detto Guston. Come sarebbe essere malvagi? Pianificare e complottare». Ma questi sono quadri onesti di un antirazzista da sempre, opere che sono l’equivalente artistico delle argomentazioni della filosofa Hannah Arendt sulla «banalità del male», che non dice che le azioni ignobili sono in qualche modo ordinarie, ma che sono motivate dalla compiacenza e forse perpetrate dai nostri colleghi, amici o vicini. In quest’opera, Guston immagina il suo nemico con un’onestà e una serietà che ne bilanciano la stupidità. Ci si augura che ci siano mille Guston per il nostro tempo.
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