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L’archeologo Daniel Brandner davanti all’ingresso della miniera di Hallstatt

© Foto Flavia Foradini

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L’archeologo Daniel Brandner davanti all’ingresso della miniera di Hallstatt

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I Celti di Hallstatt conservati dal salgemma

A circa 50 km a est di Salisburgo, l’archeologo Daniel Brandner ci accompagna nell’«area 39» della miniera di straordinarie dimensioni ed estensioni, da lui studiata con il suo team, dove il minerale ha preservato corpi, abiti e strumenti di lavoro risalenti al 1100 a.C.

Flavia Foradini

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Il paesino di Hallstatt nella regione austriaca del Salzkammergut è una meta obbligata per chiunque si interessi di cultura celtica. Sui monti alle sue spalle infatti sono stati portati alla luce resti fondamentali dei più antichi insediamenti europei di quella popolazione, trovati per caso per la prima volta nel 1846 dall’allora direttore della locale miniera di salgemma, Johann Georg Ramsauer. Innanzitutto una necropoli con un migliaio di tombe, al 45% a inumazione e al 55% a incinerazione (provviste di articolati corredi funerari fatti con materiali anche esotici), alle quali si sono aggiunte un centinaio negli ultimi scavi più addentro nel bosco della stretta valle: «Ma riteniamo che possano essere molte di più», ci dice Daniel Brandner, archeologo del Naturhistorisches Museum di Vienna e direttore delle ricerche in miniera, quelle cioè che costituiscono il secondo pilastro di un impegno continuo in loco. 

Hallstatt è da migliaia di anni un centro primario di estrazione di salgemma, che le procurò ricchezza nei secoli e rapporti commerciali costanti, documentati da innumerevoli reperti. Il più antico, una picozza creata con un corno di cervo, è datato a 7mila anni fa. 

Il tunnel di discesa alla miniera di Hallstatt. © Flavia Foradini

La forte salinità di tutta l’area ha consentito la perfetta conservazione di una vasta quantità di oggetti: «La loro importanza è tale da aver dato il nome alla fase più antica dell’età del Ferro in Europa Centrale. La “cultura di Hallstatt” si riferisce a un periodo compreso in particolare tra l’800 e il 350 a.C. e riguarda una comunità molto specializzata e molto connessa con il mondo grazie all’estrazione e al commercio del sale anche verso lande lontane. Abbiamo potuto appurare processi produttivi organizzati, standardizzati e industrializzati già nell’età del Bronzo, con competenze tecniche per addentrarsi e lavorare dentro la montagna fino a profondità di 250 metri e per escogitare soluzioni tecniche efficienti, mirate a estrarre enormi volumi di salgemma», prosegue Brandner, che ci guida in una visita dentro la miniera sopra a Hallstatt, nell’«area 39» risalente alla tarda età del Bronzo, attorno al 1100 a.C., attualmente studiata dal suo team: «La miniera sembra un po’ alla fine del mondo, tanto è isolata, ma abbiamo trovato ambra dal Mar Baltico, avorio dall’Africa, alimenti non coltivabili in zona. Va considerato che tutto doveva essere trasportato a piedi su e giù dalla montagna, fino alle sponde del piccolo lago di Hallstatt, da cui si dipartivano le rotte commerciali, per esempio verso nord attraverso il fiume Traun, su su fino al Danubio». 

Ricostruzione di una delle tombe della necropoli con il corredo funerario. © Flavia Foradini

Gli scavi sotterranei stanno procedendo aprendosi via via un varco in una grande grotta dell’antico sistema minerario, poi riempitasi di materiale probabilmente a causa di una frana in era preistorica forse dovuta a forti infiltrazioni di acqua piovana o da disgelo: «In genere per queste grotte stiamo parlando di altezze originarie fino a circa 21 metri, larghezze da 15 a 30 metri e di lunghezze fino a 300 metri, scavate dai minatori, per cui sono annoverate tra le maggiori cavità sotterranee al mondo create dall’uomo in quell’epoca. La grotta in cui ci troviamo era alta 10 metri e venne usata per almeno 120 anni. La rilevanza dell’estrazione di salgemma per l’economia faceva sì che anche là dove si verificavano frane o smottamenti sotterranei, i minatori aprissero altre gallerie più in là».

Nella luce fioca appaiono le pareti con le stratificazioni di salgemma, ma soprattutto gli strati di materiali gettati dai minatori preistorici dopo l’uso: «Questi metri e metri di pezzetti di legno bruciati, in certi punti ammassati fino a 8 metri di altezza, sono le parti finali di torce lignee lunghe circa un metro, che venivano usate per illuminare i lavori. Bruciavano per 10-15 minuti e quindi venivano gettate. Ma abbiamo trovato e continuiamo a trovare una grande quantità di altri reperti, fra cui strumenti di lavoro rotti, e quindi abbandonati, pezzi di impalcature e piattaforme lignee, parti di abiti, calzature, resti di cibo, recipienti. Abbiamo rinvenuto il più antico tessuto europeo tinto di blu, i più antichi zaini europei creati con pelli di capra, un berrettino di pelliccia da neonato e anche il più antico formaggio erborinato, un po’ come il vostro gorgonzola: testimonianze uniche e perfettamente conservate per millenni grazie all’ambiente salino». 

Ricostruzione di una delle tombe della necropoli con il corredo funerario. © Flavia Foradini

In quegli scarti della quotidianità della comunità, tutte le informazioni sono conservate come in una sorta di naturale capsula del tempo o un eloquente fermo immagine: «Analizzando per esempio gli escrementi rinvenuti, i nostri antropologi hanno ricostruito il tipo di alimentazione e lo stato di salute dei minatori e ora sono in corso analisi a livello del Dna, assieme all’Accademia Austriaca delle Scienze». 

Ciò che è stata già ricostruita relativamente bene è l’organizzazione del lavoro, che vedeva coinvolti tutti i membri della comunità fin dall’età di 7-8 anni. L’estrazione del salgemma a secco produceva massi da 10-12 a 40 kg, che venivano imbragati in corde e trasportati appesi alle spalle: «Negli scheletri della necropoli abbiamo riscontrato per esempio chiari segni di logorio tipico di chi trasporta grandi pesi». Proprio il trasporto del salgemma dentro la miniera, nell’«area 39» appare in tutta la sua efficienza. 

Parte della lunga fune di grosso calibro liberata per una lunghezza di 12 metri. © Flavia Foradini

Una lunga fune di grosso calibro fuoriesce da una parete: «È la fune più spessa che conosciamo dalla storia primordiale europea, fatta con l’intreccio di 3 filacce di corteccia di tiglio e l’abbiamo liberata per una lunghezza di 12 metri». Il reperto più impressionante è tuttavia senza dubbio la lunga scala che serviva per superare dislivelli dentro la miniera. I suoi contorni emergono dalla semioscurità: «Si tratta della più antica scala lignea d’Europa, ma quello che si vede qui è la sua impronta e la sottostruttura. L’originale lo abbiamo recuperato dopo la scoperta nel 2003, e dopo dettagliate analisi, nel 2015 l’abbiamo rimontato in una grande vetrina climatizzata alla fine del percorso di visita turistica della miniera di salgemma. Non abbiamo potuto lasciarla in situ perché la pressione della montagna rischiava di danneggiarla». 

La sua struttura è particolarmente interessante: «Ci dimostra in modo unico l’arte ingegneristica dell’età del Bronzo, visto che abbiamo a che fare con un sistema modulare standardizzato. A parte le spalle, formate da due tronchi di abete di 8 metri di lunghezza e che abbiamo potuto datare attorno al 1340 a.C., molti elementi potevano essere prodotti in serie in superficie e poi montati a incastro nel punto in cui servivano: al bisogno potevano essere smontati e portati altrove, oppure venire facilmente riparati. Qua sotto di scale così ve n’erano molte».

L’impronta della più antica scala d’Europa ritrovata all’interno della miniera. © Flavia Foradini

Flavia Foradini, 29 luglio 2024 | © Riproduzione riservata

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