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«La caduta di Fetonte» (1604-05, probabilmente rilavorato tra il 1606 e il 1608) di Pieter Paul Rubens, Washington, National Gallery of Art

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«La caduta di Fetonte» (1604-05, probabilmente rilavorato tra il 1606 e il 1608) di Pieter Paul Rubens, Washington, National Gallery of Art

I 200 anni del Museo Egizio • Come la strada per Menfi deviò per Torino. 1. Dal sole al fiume

In quattro puntate l’egittologo Francesco Tiradritti racconta com’è nato lo stretto legame tra la città sabauda e la terra dei faraoni che portò alla nascita del Museo Egizio

Francesco Tiradritti

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Quanti adolescenti resisterebbero alla tentazione di farsi prestare dal padre il carro fiammeggiante con il quale attraversa il cielo ogni giorno? Pochissimi ci riuscirebbero e tra questi non vi era certo Fetonte, figlio di Apollo, talmente ossessionato dal desiderio di guidare il veicolo celeste da trascorrere la fanciullezza in Trinacria a riprodurne una copia. Una volta cresciuto, la mania infantile si trasformò in vera e propria fissazione. Insistette così tanto che alla fine Apollo cedette e gli consentì di prendere la guida del carro solare. Gli fornì le necessarie istruzioni e gli fece indossare l’abbigliamento necessario. Poi lo osservò partire, probabilmente con la stessa apprensione che prova ogni padre quando il figlio si getta in una nuova avventura.

Fetonte partì e l’esaltazione di sfrecciare nel cielo trascinato da cavalli che sprizzavano fuoco dalle narici dovette essere enorme. Purtroppo, durò poco. Dovette ben presto rendersi conto di non essere in grado di dirigere i possenti destrieri e, atterrito, discese verso la terra prosciugando fiumi, surriscaldando le acque degli oceani, incendiando boschi e desertificando pianure. Giove in persona fu costretto a intervenire e scagliò una delle sue saette su Fetonte che, colpito a morte, precipitò al suolo.

 

Frontespizio di «Augusta Taurinorum» (1577) di Emanuele Filiberto Pingone, Torino, Eredi Nicola Bevilacqua. Archivio Francesco Tiradritti

Secondo quanto affermato da Igino (astronomo; I secolo) l’avventato giovane cadde in una località lungo le rive del fiume Eridano da lui identificato con il Po. Da questa tradizione prese spunto Emanuele Filiberto Pingone (1525-82) per ricostruire le origini di Torino.

Nella sua opera Augusta Taurinorum, pubblicata nel 1577, afferma che Fetonte (o Eridano), dopo avere fondato alcune colonie tra i Liguri, precipitò avvolto tra le fiamme in riva al Po che, proprio per questo, ricevette il nome di Eridano. Nella località dove era stata eretta la sua tomba sorse la città di Eridana (o Fetonzia). In un’imprecisata epoca successiva l’adorazione del toro sarebbe diventata un elemento così preponderante da determinare il cambiamento del nome della città in Taurino.

Pingone prosegue a narrare le vicende che condussero Torino ad acquistare l’appellativo di Augusta e poi a diventare, grazie al trattato di Le Cateau-Cambrésis (1560), la capitale del ducato di Savoia sotto Emanuele Filiberto I (1528-80).  Al termine della sua opera pone l’elenco dei governatori di Torino facendolo cominciare con Fetonte/Eridano. In evidente contraddizione con quanto aveva affermato all’inizio, affermando che la città era stata fondata sulla sua tomba.

Questa non è l’unica incongruenza nell’opera di Pingone, improntata all’esaltazione encomiastica di una città da pochi anni capitale e che Emanuele Filiberto I, oltre a migliorarla dal punto di vista architettonico e urbanistico, desidera nobilitarne le origini anche a costo di qualche evidente forzatura storica.

 

 

«Il mito di Iside e Osiride» (1492-94) del Pinturicchio sulla seconda crociera del soffitto della Sala dei Santi negli Appartamenti Borgia in Vaticano. Archivio Francesco Tiradritti

La «spruzzata» di Egitto antico che Pingone conferisce al mito di Fetonte (al quale, a onore del vero, attribuisce un’origine «dalla Grecia o, secondo altri, dall’Egitto») e l’accenno alla ninfa Io figlia di Inaco, secondo lui identificata post mortem con Iside, sono strumentali a esaltare proprio le presunte e antiche origini di Torino. Il riferimento alla civiltà egizia rientra infatti in quella moda inaugurata alla fine del secolo precedente dagli umanisti e che aveva visto in Annio da Viterbo (1437-1502) uno dei principali fautori. Non a caso, il primo autore citato da Pingone è lo storico greco-babilonese Berosso Caldeo (IV-III secolo a.C.) che proprio Annio utilizza come fonte primaria nella compilazione della sua opera di falsificazione storica, Antiquitatum variarum volumina XVII. L’intenzione dell’umanista viterbese era di scavalcare la cultura greca, ritenuta corruttrice di tutte quelle avvicendatesi nelle epoche successive, facendo della terra dei faraoni la culla della più pura ed elevata sapienza.

Annio attribuiva origini egizie alla propria città natale Viterbo. Sosteneva che era stata fondata da Osiride dopo avere combattuto e sconfitto insieme a Ercole i Giganti in Etruria. Secondo Annio la prova era da trovare nel cosiddetto «marmo osiriano», un monumento esposto prima nella Chiesa di San Lorenzo, poi nel Palazzo Comunale e che ora al Museo Civico Rossi Danielli di Viterbo.

Annio riteneva si trattasse di un’iscrizione geroglifica posta a imperituro ricordo dell’impresa osiriana. Si tratta in realtà di una delle tante falsificazioni elaborate dall’erudito viterbese che aveva ottenuto mettendo insieme una lunetta del XII-XIII secolo e due teste di profilo (una maschile e una femminile) della seconda metà del XV secolo.

Il «marmo osiriano» (fine XV secolo), un assemblaggio realizzato da Annio da Viterbo di frammenti marmorei, Viterbo, Museo Civico Luigi Rossi Danielli. Fotografia Francesco Tiradritti

Annio è anche ispiratore del ciclo dipinto dal Pinturicchio (1452-1513) sul soffitto della Sala dei Santi negli appartamenti Borgia in Vaticano tra il 1492 e il 1494. Nella prima crociera è narrato il mito della ninfa Io che, amata da Giove, viene da questo trasformata in giovenca per sottrarla all’ira di Giunone. La dea non si lascia però ingannare e fa inseguire Io che fugge e raggiunge l’Egitto dove riprende le sue sembianze umane trasformandosi in Iside. Nella seconda crociera il racconto continua con il matrimonio con Osiride, ucciso però dal malvagio fratello Tifone. Iside ricompone il corpo dello sposo e lo seppellisce in una piramide dalla quale Osiride risorge sotto forma di Toro Api. Nell’elaborare l’idea alla base del complesso ciclo pittorico Annio trasse ispirazione dal De Iside et Osiride di Plutarco e dalle Metamorfosi di Ovidio. Il finale della reincarnazione in toro, animale dinastico dei Borgia, è invece una sua invenzione.

Pingone, che aveva il compito di nobilitare una città che traeva il nome dallo stesso animale non dovette fare altro che seguire le orme del predecessore viterbese affermando, come asserivano alcuni (per esempio Giovanni Boccaccio nelle Genealogie Deorum Gentilium VII.41), che Fetonte-Eridano avesse avuto natali in Egitto.

I pochi accenni e discreti accenni di Pingone a una possibile origine egizia di Torino furono ripresi e amplificati un secolo più tardi da Emanuele Tesauro (1592-1675). L’iscrizione in latino a commento dell’antiporta del suo Historia dell’augusta città di Torino I (1679) afferma, infatti, che Eridano era «re degli Egizi» e aveva fondato, sette secoli prima di Roma, una città alla quale aveva attribuito il nome del «toro dell’Egitto». L’immagine allegorica mostra il re Eridano che mostra una pergamena con una pianta di Torino rivolgendosi sorridente a un toro posto su un piedistallo.

Il mito egizio di Torino riceveva piena consacrazione.

Antiporta di «Historia dell’augusta città di Torino I» (1679) di Emanuele Tesauro, Torino, Bartolomeo Zappata

Francesco Tiradritti, 29 ottobre 2024 | © Riproduzione riservata

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