Alberto Salvadori
Leggi i suoi articoliOgni giorno leggiamo e sentiamo trionfalistici proclami o lamentele in relazione a quello che le nostre istituzioni culturali sono, fanno e dovrebbero essere o non essere. Immense eredità culturali, riunite in alcuni casi in fondazioni, legate direttamente alle sorti politiche nazionali, regionali o comunali, altre ancora gestite da soggetti esterni creati ad hoc. Pensando a che cosa siano i musei oggi in Italia, è difficile trovare una definizione soddisfacente. I musei sono un’invenzione recente nella storia della cultura umana, sono entità necessarie e allo stesso tempo problematiche. Pongono eterni interrogativi e continue cure; hanno alla loro base tratti umanistici che li rendono vitali e tratti economicistici che se prevalenti li rendono anonimi.
Il processo al quale stiamo assistendo, osservando il contesto italiano, è quello del progressivo evolversi di una loro «isolanità», termine mutuato dagli studi geografici per indicare l’idea di abitare un’isola. La questione non è rimanere nella dimensione prettamente terminologica, ma capire se il vivere insulare abbia una qualche realtà/qualità o abiti solo nel nostro immaginario, quello degli operatori, dei politici sempre più presenti nelle scelte culturali, degli economisti alla base di molte riforme e indicazioni gestionali, dei collezionisti desiderosi di avere il loro museo. Dal punto di vista culturale e sociale la caratteristica e il rischio dell’«isolanità» è l’isolabilità, la condizione più rischiosa e dolorosa per la comunità di riferimento fino a rendere i musei il centro di questo processo. Per chi arriva in un’isola (nel nostro caso moltitudini di visitatori più o meno consci del dove si trovano) emerge la progressiva ossessione di costruirsi un’esperienza, e gli isolani assecondano tale desiderio con invenzioni sempre più fantasiose al servizio di orde sciamanti da navi da crociera, autobus incandescenti e low cost ogni dove. Ad esempio, facile trovare sul web offerte per visite a Firenze di 15 minuti per Duomo, Battistero, piazza della Signoria o 75 minuti per gli Uffizi.
Ecco allora emergere il ricordo che molti di noi hanno vissuto di fronte all’icona dell’«isolanità», del trapasso dalla coscienza all’incoscienza della visione: la «Gioconda» al Louvre. Ettore Sottsass scrisse parole perfette per definire tale modalità di costruzione di un modello esperienziale ed economico poi diffusosi ovunque «in quella specie di galleria da Stazione Centrale di Milano, sala d’aspetto per passeggeri muniti di biglietto di prima classe che è la Galleria del Louvre dove si può vedere il quadretto di Leonardo...» (da Molto difficile da dire, Adelphi 2019, p. 101). Lì Leonardo non c’è, è sparito e chi lo cerca sicuramente non lo trova. Firenze e gli Uffizi non esistono nei pochi minuti tutto compreso. Questa sparizione non pare importante: è necessario costruire esperienze, comunicazione, prodotto e numeri, come se il museo o il luogo visitato fosse un «mall» dove il trofeo non si acquista, ma ci si illude di possederlo attraverso una visita fugace e spesso inconsapevole. Da anni non si parla d’altro che di numeri attraverso trionfali comunicati che annunciano il tutto esaurito, la saturazione degli spazi e l’indotto generato. Tutto bene, andrebbe però forse letto questo come un dato complementare rispetto ad altro: l’accessibilità per tutti, la ricerca, le mostre e l’utilizzo delle collezioni per la realizzazione di percorsi che non siano medaglie da appendere al petto.
Dovremmo agire per rendere le istituzioni culturali libere dalla politica, dagli appetiti localistici e regionalistici, pensare che la stagione del controllo e della dipendenza da ministri, dagli incarichi legati alle tempistiche elettorali e umorali di sindaci e assessori e presidenti cooptati sia passata per andare verso un contesto dove chi ha visioni, progettualità e capacità possa davvero esprimerle. Le istituzioni culturali, dalle posizioni apicali a quelle meno importanti, non possono essere approdo per chi ha urgenza di carriere e visibilità, ma piuttosto di chi sappia costruire con pazienza e professionalità progetti significativi nel tempo. Nel fare questo nessuno vuole mettere in discussione il tema del patrimonio che quando è pubblico deve rimanere tale e deve continuare a essere messo sempre a disposizione della collettività, a condizioni sempre più favorevoli. Ciò che dovremmo fare è attivare una rivoluzione culturale, fiscale e operativa attraverso la quale il cosiddetto «privato» possa davvero aiutare il pubblico e non meramente gestirne le parti più redditizie o diventarne il contraltare. È indispensabile mettere la necessaria distanza tra istanze e urgenze politico-economiche e la gestione dei musei e delle istituzioni culturali.
Le riforme sono necessarie, ma devono essere fatte con coraggio per andare a incidere davvero sul futuro e non rimanere uno strumento monco in mano al politico di turno, talvolta con attitudine dispotica. Complementarità e sussidiarietà, per quanto appaiano termini desueti e di difficile inserimento nel linguaggio della comunicazione attuale, sono alla base delle istituzioni culturali e trovano il plauso di molti professionisti che ci lavorano. Uscire dall’«isolanità» oltre che possibile è necessario.