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Alberto Salvadori
Leggi i suoi articoliIl centenario di Robert Rauschenberg è l’occasione per una dedica che la galleria Gladstone ha voluto fare all’artista in una delle sedi di Chelsea a New York. «Sympathy for Abandoned Objects» è il titolo del progetto (1 maggio-14 giugno). Un’unica stanza che permette di entrare all’interno di uno spazio-tempo dilatato, ben quarant’anni durante i quali l’essenza della ricerca e la capacità di combinare idee e cose da parte di Rauschenberg non hanno mai finito di stupire. La sostanza di un’estetica americana, legata a un processo totalmente industriale della produzione di oggetti e materiali di uso comune, lontani da qualsivoglia originalità artigianale, viene restituita in chiave poetica e sublime dall’artista.
Trenta opere dimostrano la sua genialità nel rimanere sempre sul difficile crinale tra scultura e pittura. Ready made, elementi decorativi e forme organiche coesistono in una pratica quasi performativa, grazie alla quale i vari pezzi si combinano aderendo a quello che Rauschenberg definiva i suoi «enviroment treasures» che rielaborati nel suo studio assumevano nuova forma. La selezione proviene da serie come le «Scatole personali» (1952-53), «Elemental sculptures» (1953-59), «Combines» (1954-64), «Kabal American Zephyrs» (1981-83/1985/1987-88), «Gluts» (1986-89/1991-94) e «Roci» (1984-91). L’allestimento, curato dallo studio di architettura Selldorf, aiuta a leggere la sua proteiforme capacità inventiva e l’originale vocabolario formale e stilistico, esaltando ogni singolo pezzo in relazione all’insieme, definendo uno spazio espositivo pressoché perfetto. Il tutto è accompagnato da un catalogo disegnato da Chris Svensson con un testo di Lisa Le Feuvre, direttrice della Holt/Smithson Foundation a Santa Fe, raffinata studiosa e curatrice.
Si deve andare indietro nel 1995 al Modern Art Museum di Forth Worth per trovare un progetto simile. Questa mostra come altre (da citare adesso in città le due magnifiche in corso da Gagosian, una dedicata a Picasso realizzata con la complicità della figlia Paloma e l’altra a de Kooning, oppure «Gottlieb/Rothko: the realist years» da 125 Newbury) dimostrano come le gallerie possono essere veri luoghi di ricerca, soggetti operativi in ambito culturale in grado di correre parallelamente alle grandi istituzioni producendo occasioni irripetibili. In Italia progetti simili ce li dimentichiamo; non perché i galleristi italiani non siano in grado di allestire mostre così, anzi, lo sono eccome; sono necessarie però oltre a economie capaci di supportare il tutto anche leggi e normative che non ostruiscano, fino a ucciderlo, il lavoro dei mercanti. I collezionisti, i galleristi, e di conseguenza tutti gli appassionati d’arte, ne pagano le conseguenze e per i primi due la via dell’estero sta diventando obbligatoria. Ecco allora che, a partire dall’Iva eccessiva, proseguendo sulla detrazione fiscale per le donazioni, fino alle notifiche che frenano spesso inutilmente il mercato, è necessario uscire da bizantinismi e retoriche ideologiche per affrontare temi come questi. Una capacità normativa e operativa del genere stimolerebbe anche i musei, permettendo loro di ritrovare quel dinamismo culturale che hanno perso a causa di molti fattori: economico, la sempre maggior difficoltà a organizzare mostre in proprio, una riforma sbagliata e incompiuta, aver lasciato indietro almeno due generazioni di validi studiosi e professionisti per l’assenza o i ritardi dei concorsi. Non ultima, la pervasiva presenza della politica miope e inadeguata in ogni ambito.
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