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«Pittura in pietra» la definiva Giorgio Vasari nella Firenze granducale del XVI secolo, dal cui Opificio delle Pietre Dure, istituito nel 1588 da Ferdinando II de’ Medici, uscivano i più preziosi e mirabolanti «commessi marmorei» che si potessero immaginare. Ma già Plinio il Vecchio, 15 secoli prima, aveva parlato della tecnica dell’«opus sectile», con la quale si realizzavano composizioni squisite accostando frammenti di marmi e pietre dure tagliate in modo da comporre figure e scene variopinte, come fossero dipinte con pennelli e colori.
È ciò che fa oggi Domenico Bianchi (Anagni, 1955), che riattualizza questa tecnica antica, così come ha fatto lungamente con l’encausto a cera, spesso da lui intarsiato con metalli preziosi, e come ha fatto con il legno, introducendo al centro di queste sue nuove «pitture in pietra» gli elementi circolari aperti e spiraliformi, come galassie orbitanti intorno al proprio nucleo, su un fondo di larghe «tessere» irregolari che, sempre simili ma sempre diversi fra loro, sono la sua cifra identificativa: non certo motivi decorativi ma nuclei generatori di plurimi significati.
Come scrive Sergio Risaliti nel testo che accompagna la personale presentata dal 28 febbraio al 18 maggio dalla Galleria Stein, il suo sembra essere «un linguaggio visivo che proviene da molto lontano, ispirato da archetipi e reminiscenze primordiali. O [la] prefigurazione di qualche formula segreta che potrebbe spiegarci il senso della vita nell’universo».
A potenziare, in questa mostra, i significati simbolici delle opere, è il numero stesso dei lavori esposti: otto, numero alchemico e spirituale per eccellenza, «simbolo dell’infinito, racchiude nel suo geroglifico l’immenso, è la spirale della genesi, riproduce il segreto della creazione». Dopo aver esplorato le potenzialità della luce serica della cera, Domenico Bianchi sperimenta dunque la lucentezza dei marmi e delle pietre dure, in composizioni che racchiudono il mondo intero attraverso i minerali che le compongono.
Dal nero del marmo del Belgio al verde squillante della malachite dello Zaire e al bianco dello statuario delle Apuane, passando attraverso diaspri, onici e minerali di ogni dove, in questi lavori Domenico Bianchi ricompone un atlante della Terra attraverso i tesori che essa stessa ha generato lungo le ere geologiche e che oggi, trattati con una manualità e una sapienza antiche che li trasformano in simboli ancestrali, ci riconnettono alle forze ctonie come a quelle cosmiche.

«Senza titolo» (2023), di Domenico Bianchi. Cortesia della Galleria Christian Stein, Milano

Una veduta della mostra di Domenico Bianchi alla Galleria Christian Stein Milano. Cortesia dell’artista e della Galleria Christian Stein Milano. Foto A. Osio

«Senza titolo» (2023), di Domenico Bianchi (particolare). Cortesia della Galleria Christian Stein, Milano

Una veduta della mostra di Domenico Bianchi alla Galleria Christian Stein Milano. Cortesia dell’artista e della Galleria Christian Stein Milano. Foto A. Osio
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