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Allestimento della mostra «Origin of Simplicity. 20 Visions of Japanese Design» nell’Adi Design Museum di Milano

Foto: Yuki Seli

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Allestimento della mostra «Origin of Simplicity. 20 Visions of Japanese Design» nell’Adi Design Museum di Milano

Foto: Yuki Seli

Il Giappone nei musei italiani

Quest’anno fioriscono i sakura: quattro visioni contemporanee di collezionismo e design a Firenze, Roma, Milano e Torino

Elisabetta Raffo

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«Ogni tempo ha il suo spirito del tempo. I tedeschi lo chiamano Zeitgeist, addirittura “il fantasma” del tempo. Ed è quell’insieme di emozioni, di immagini e di idee comuni che caratterizzano un tempo. Un designer deve conoscere questo e, per quanto possibile, deve anche saperlo testimoniare nei prodotti che realizza. Questo vuol dire anche una cosa in più: che il design non è solamente una disciplina tecnica, […] ma è anche, e io direi soprattutto, una disciplina umanistica, che tratta l’evoluzione della civiltà e dell’umanità che la compone». Sono le parole pronunciate dall’architetto Michele De Lucchi alla presentazione del volume Collezionisti e valore dell’arte in Italia 2024, collana editoriale nata dalla collaborazione di Intesa Sanpaolo Private Banking con le Direzioni della Banca Arte, Cultura e Beni Storici e Studi e Ricerche. Il fatto che il design, nel suo rappresentare lo spirito del tempo, diventi sempre più tema di approfondimento culturale, oltre che oggetto del desiderio collezionistico soprattutto fra le giovani generazioni, è confermato da diverse iniziative a Milano, Roma, Firenze e Torino unite dal comune riferimento al Giappone. 

Ne abbiamo parlato con Rossella Menegazzo, esperta di storia dell’arte e cultura giapponese dell’Università degli Studi di Milano, Aurora Canepari, conservatore responsabile del Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone di Genova, Enrico Colle, direttore del Museo Stibbert di Firenze, e Davide Quadrio, direttore del Mao-Museo d’Arte Orientale di Torino.

A Firenze, i temi di design e collezionismo orientale sono stati investigati nel corso della giornata di studi «Spazi di Frontiera. Manufatti extraeuropei negli interni di fine ’800 e inizio ’900» al Museo Stibbert. «Gli interventi, ha commentato Enrico Colle, erano focalizzati sulla diversità di atteggiamenti da parte della società europea verso tutto ciò che proveniva da lontano e hanno affrontato da vari punti di vista il tema dell’alterità, a partire dalla coabitazione armonica tra Europa e mondi lontani negli interni europei tra Otto e Novecento, che evidenziano il legame stretto tra i collezionisti e i loro oggetti nell’intento di far convivere culture diverse. I manufatti extraeuropei negli interni dell’élite europea fungono, non solo da segno di cosmopolitismo e universalismo, ma anche da tappe del nostro decentramento culturale. La casa museo di Frederick Stibbert, che conserva intatti gli allestimenti voluti dal collezionista, è un esempio tuttora vitale di questa interazione, affascinante “spazio di frontiera” in una villa fiorentina». 

A proposito della mostra «Ukiyoe. Il Mondo Fluttuante. Visioni dal Giappone», allestita fino al 23 giugno al Museo di Roma - Palazzo Braschi, scrive Aurora Canepari: «Dopo più di un secolo Edoardo Chiossone e Vincenzo Ragusa si rincontrano a Roma. O meglio, le loro straordinarie collezioni di arte giapponese, raccolte alla fine dell’Ottocento, convergono in un’esposizione temporanea (voluta da Roma Capitale) dedicata alle espressioni artistiche del periodo Edo (1600-1868) e dell’ukiyoe, il mondo fluttuante. Dal Museo Chiossone di Genova e dal Museo delle Civiltà di Roma provengono la totalità dei 150 pezzi esposti, rappresentativi dei gusti collezionistici dei due personaggi che fecero la storia dei rapporti tra Giappone e Italia durante la fine del XIX secolo. Entrambi invitati dal governo giapponese come consulenti stranieri (“oyatoi gaikokujin”), portarono il loro contributo alla modernizzazione del Giappone durante il Periodo Meiji (1868-1912). Edoardo Chiossone, incisore genovese, e Vincenzo Ragusa, scultore palermitano, dedicarono il loro ingegno e le loro finanze a formare collezioni d’arte giapponese destinate a diventare patrimoni museali dell’Italia. La raccolta Chiossone, che con più di 15mila pezzi vanta il primato di più grande collezione di arte giapponese italiana, fu aperta al pubblico a Genova nel 1905, come da volontà ultime del suo donatore, presso l’Accademia Ligustica di Belle Arti e, a causa di un riordinamento postbellico, riaperta nel 1971 nella sede attuale. La collezione Ragusa, invece, oggi conservata presso il Museo delle Civiltà di Roma comprende circa 4.200 oggetti, che furono dapprima esposti nella scuola-officina che Ragusa fondò a Palermo una volta rientrato dal Giappone, e in seguito ceduti all’allora Regio Museo Nazionale Preistorico Etnografico di Roma tra il 1888 e il 1916. Le due collezioni si sono formate nello stesso periodo e negli stessi ambienti culturali, che solo da pochi anni si erano aperti all’Occidente dopo secoli di chiusura forzata. Chiossone e Ragusa hanno scelto i propri pezzi non solo secondo il gusto personale, ma tenendo a mente i loro obiettivi didattici: rispettivamente, dotare Genova di un luogo in cui studiare e ammirare l’eccellenza artistica del Giappone e fondare a Palermo una scuola in cui formare i giovani sulle tecniche artigianali giapponesi. In ragione delle loro differenti inclinazioni, nella collezione genovese troviamo una più grande varietà di opere pittoriche e grafiche, mentre nella collezione Ragusa sono presenti per la maggior parte oggetti d’uso quotidiano o cultuale e opere di artigianato artistico. Le unicità delle due raccolte si fondono perfettamente nella selezione curata da Rossella Menegazzo per illustrare il filone artistico giapponese storicamente e internazionalmente più influente, quello dell’ukiyoe, letteralmente “immagini del mondo fluttuante”. Fenomeno pittorico di massima espressione della vivacità culturale della capitale governativa, Edo, l’attuale Tokyo, “rappresentò per l’epoca anche un nuovo mezzo di divulgazione, attraverso le immagini e i libri illustrati, di valori culturali nuovi. Dietro a rappresentazioni di un mondo di piaceri e intrattenimenti terreni spesso si celavano insegnamenti, concetti morali e messaggi che venivano passati abilmente, scavalcando la forte censura governativa che voleva colpire il lusso e le classi emergenti. Le opere in mostra ci raccontano quanto quella di Edo fosse una società alfabetizzata e come si usassero le arti come disciplina formativa dell’individuo”».

Da sinistra: Enrico Colle, Aurora Canepari, Rossella Menegazzo e Davide Quadrio

Rossella Menegazzo ci parla della mostra, da lei curata, «Origin of Simplicity. 20 Visions of Japanese Design» in corso fino al 19 giugno nell’Adi Design Museum di Milano (progetto di allestimento e progetto grafico di Kenya Hara): «Tra le qualità che definiscono e rendono immediatamente riconoscibile l’arte, l’artigianato e il design giapponesi vi è la semplicità. Una semplicità che viene declinata come essenzialità delle forme, povertà dei materiali, aderenza alle imperfezioni della natura e insieme cura dei minimi particolari. Si tratta di un concetto di semplicità lontano dalla razionalità che ha caratterizzato la modernità occidentale, perché trova fondamento innanzitutto nel pensiero animista e shintoista che sottende a tutta la cultura giapponese, un concetto in cui il vuoto spaziale (“ma”) implica la potenziale presenza del divino. A questo pensiero primigenio, fortemente legato alla potenza degli eventi naturali che continuamente segnano la vita dell’arcipelago e della sua gente, si è aggiunto a partire dal XIII secolo quello buddhista proveniente dalla Cina, in particolare dello zen, che ha integrato un ulteriore concetto legato al vuoto (“ku”) per cui sottrarre diventa importante quanto riempire. Un significato di vuoto che ha trovato espressione nel design e nell’artigianato attraverso l’apprezzamento di materiali naturali, poveri (“wabi”), dalla carta al legno, alla terra, al metallo fino al tessuto e oggi ai materiali di scarto organici, nella loro asimmetria e non finitezza, nonché nella patina data dal tempo e dall’usura (“sabi”). Tutti questi valori si sono diffusi intorno alla cerimonia del tè (“chanoyu”) nella forma promossa dal maestro Sen no Rikyū (“wabicha”) a partire dal XVI secolo. Sono tantissimi i pezzi iconici del design giapponese in cui lo stretto legame tra design e artigianalità si rivela peculiare per l’equilibrio sottile e fluido tra natura, materia, uomo e artificio, tecnica e tecnologia. Andare all’origine del concetto di semplicità nel design giapponese, indagandone le radici attraverso 20 visioni declinate in altrettante parole chiave che accomunano la ricerca di generazioni di designer e di manifatture storiche e piccoli laboratori artigianali che continuano la tradizione del fatto a mano locale da secoli, è l’intento di questa mostra: oltre 150 opere, molte mai presentate prima in Italia, progettate dai nomi più rappresentativi del design moderno e contemporaneo, che hanno segnato la storia del design giapponese a partire dagli anni Sessanta del Novecento, ma anche esponenti delle ultime generazioni, meno note al pubblico internazionale. Tutti gli oggetti scelti sottolineano la sapienza artigianale, che al design ha tradizionalmente unito tecniche, materiali e forme tramandati di generazione in generazione, attraverso botteghe, laboratori storici e maestri considerati “tesori nazionali viventi”, intangible heritage».

«Trad u/i zioni d’Eurasia», al Mao-Museo di Arte Orientale di Torino fino al primo settembre, parla di frontiere liquide e mondi in connessione. «Duemila anni di cultura visiva e materiale tra Mediterraneo e Asia Orientale attraverso capolavori dell’arte islamica e asiatica in dialogo, a volte inatteso, con opere d’arte occidentale e contemporanea, raccontano una Storia fatta di storie, di innesti, di contaminazioni e di tradimenti. È la nostra storia, una narrazione che accomuna angoli lontani del continente eurasiatico più di quanto siamo disposti a credere e che dimostra quanto il concetto di confine sia sempre stato un’idea illusoria e arbitraria», afferma il direttore Davide Quadrio. Le opere tessili site specific dell’artista franco-marocchina Yto Barrada (coinvolta con il suo lavoro fin dall’inizio della mostra nel 2023) dialogano con i velluti turchi ottomani del XVI secolo, o con il ritratto giapponese su seta di un monaco zen di epoca Edo (1795): è significativo che proprio il tessile sia uno dei leitmotiv anche della Biennale di Venezia 2024. «Le opere tessili rivelano un interesse per l’artigianato, la tradizione e il fatto a mano, così come per le tecniche che nel campo delle belle arti, sono state a volte considerate altre o straniere, estranee o strane», ha dichiarato nel suo intervento per la Biennale il curatore Adriano Pedrosa. Il tessile è il manufatto itinerante per eccellenza per la sua natura di leggerezza e portabilità, l’oggetto che connette luoghi, persone, passato e futuro nel nostro presente. Lo spirito del nostro tempo è forse proprio «Stranieri Ovunque».

«L’attore Tanimura Torazo nel ruolo di Washizuka Happeiji» di Tōshūsai Sharaku. © Museo d’Arte Orientale E. Chiossone

Elisabetta Raffo, 31 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

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