Alessandro Allemandi
Leggi i suoi articoliNei prossimi mesi si parlerà delle Vatican Chapels. La Santa sede, Francesco Dal Co e dieci studi di architettura internazionali hanno infatti creato un “nuovo mondo” nell’Isola di San Giorgio a Venezia, sito prescelto dal Vaticano per il suo debutto alla Biennale di Architettura. Mentre pubblico e media stanno scoprendo e ammirando le cappelle d’autore, molti si pongono la domanda su quale sarà il loro destino, e quello del sito, quando la Biennale sarà conclusa.
Professor Dal Co, nel padiglione espositivo dedicato a Gunnar Asplund e al suo progetto per la Cappella nel bosco del cimitero di Stoccolma, lei descrive l’origine delle Vatican Chapels con le parole accoglienza, incontro, orientamento. Può spiegarci come queste tre idee sono state sviluppate fino ad arrivare alla loro concretizzazione architettonica?
Prima di entrare nel merito, vi è una premessa da fare. Tutti noi abbiamo visitato molte volte mostre di architettura, traendone piacere e interesse. Ma anche, credo sempre, quando si visita una mostra di architettura, si ha la sensazione di avere visto qualche cosa che non è ancora nato. L’architettura vive della luce, del sole, dell’ombra, della pioggia, del suo peso, delle sue strutture, dei suoi materiali. L’idea di costruire le dieci cappelle e il padiglione espositivo dedicato a Asplund intende essere un risarcimento per questa delusione che necessariamente anche le più belle mostre di architettura finiscono per produrre.
Perché ha scelto il tema della cappella in un bosco?
Perché non ha precedenti. Non vi sono modelli, neanche la cappella di Asplund lo è, dato che ha una funzione ben precisa. Ha avuto però un significato di orientamento per il lavoro che gli architetti sono stati chiamati a fare. La cappella sin dalla sua origine è un luogo d’incontro, di scambio, dove vi è sempre una mensa, rimasta in tutta la nostra tradizione liturgica. La mensa è il luogo dove ci si scambia il cibo oltre che incontrarsi e conoscersi. E’ il luogo dell’accoglienza, e a questo termine abbiamo dato e continuiamo a dare un’enorme importanza. Accogliere è il significato della cappella.
Che committente è stato il Vaticano?
Sono molto grato alla Santa Sede per avermi lasciato completamente libero nel compiere la scelta degli architetti. E gli architetti a loro volta sono stati liberi di interpretare questo tema senza dover rispondere a modelli o a richieste specifiche. Questo regalo di libertà, che tutti coloro che hanno realizzato le Vatican Chapels hanno ricevuto, è stato l’aspetto più bello e gratificante di quest’esperienza.
Gli architetti da lei scelti non sono noti per aver realizzato costruzioni religiose, per un particolare rapporto con la fede o con il Vaticano.
Non so se gli architetti delle cappelle sono tutti laici, certamente la loro opera è laica. Non è stata posta a loro alcuna richiesta specifica, abbiamo solo insistito un po’ sul fatto che all’interno delle cappelle ci fosse la mensa e possibilmente la presenza di un libro. Perché il libro è la trasmissione e la conservazione del sapere. Non ci sono state richieste dal Vaticano ed è straordinario, ripeto, che questo committente abbia concesso a tutti noi, non soltanto a me, questa inedita libertà.
Le cappelle sono diversissime l’una dall’altra.
Sono il risultato di scelte costruttive molto diverse. Materiali e concezioni statiche sono diversissime. Si va da un edificio quasi primordiale, che cita il Machu Picchu, come la cappella di Eduardo Souto de Moura, alla tensegrity structure di Norman Foster, dall’omaggio alla tradizione viva giapponese di Terunobu Fujimori all’astrazione assoluta di Carla Juaçaba, la cui idea della croce e della panca sospese su un unico punto di appoggio trovo davvero impressionante. Non è stato facile costruirle tutte, proprio per questi approcci di concezione statica molto diversi, ma è stato gratificante vedere tanti modi così diversi di rapportarsi a un tema come quello della cappella.
Il sito delle Vatican Chapels, una porzione dell’isola di San Giorgio fino ad oggi inaccessibile, è adesso un luogo riqualificato. Com’è stato scelto?
La scelta di costruire delle cappelle nel bosco implicava prima di tutto l’esistenza di un bosco. A San Giorgio questo bosco c’era, ed ra sconosciuto. É stato completamente restaurato, comprese le preesistenze architettoniche, come l’edificio di Vietti e di Ponti, che era totalmente scomparso. Si trova su una lingua di terra di circa un ettaro e mezzo, protesa nell’acqua, che non esisteva fino al 1960 grossomodo, poiché è nata dal trasferimento nell’acqua delle rovine accumulate con le demolizioni fatte nell’Isola di San Giorgio per ristrutturala come adesso la conosciamo.
Gli architetti hanno concepito le cappelle come opere temporanee?
Bisognerebbe chiederlo a ciascun architetto, ma la mia impressione è che non lo siano. Definire temporanee alcune di queste costruzioni non mi sembra appropriato, anche se, ovviamente, tutto è temporaneo.
Che cosa succederà al sito alla conclusione della Biennale?
Io spero che diventi una nuova parte di Venezia. Al di là delle decisioni che verranno prese sul futuro delle cappelle, che non spettano a me, spero ci sia un riconoscimento della bellezza di questo luogo, che diventi patrimonio della città, per declinare nuovamente il tema dell’accoglienza a cui abbiamo fatto riferimento.
A chi toccherà la scelta?
Il mio lavoro è concluso, decideranno il Vaticano, coloro che governano la città e la Fondazione Cini, tenendo conto che questo terreno è di tutti noi perché quest’isola appartiene al Demanio dello Stato italiano.
VATICAN CHAPELS | Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia
Andrew Berman
con Moretti, Terna
Francesco Cellini
con Panariagroup
Javier Corvalán
con Simeon
Ricardo Flores, Eva Prats
con Saint-Gobain Italia
Norman Foster
con Maeg, Tecno, Terna
Terunobu Fujimori
con Barth Interni, LignoAlp
Sean Godsell
con Maeg, Zintek
Carla Juaçaba
con Secco Sistemi
Smiljan Radic
con Moretti, Saint Gobain Italia
Eduardo Souto de Moura
Con Laboratorio Morseletto
PADIGLIONE ASPLUND
Francesco Magnani, Traudy Pelzel
con Alpi
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Discendente da una delle famiglie di antiquari più prestigiose di Roma, presidente dell’Associazione Antiquari d’Italia e della Fondazione per il Museo Ebraico di Roma, racconta la sua storia, com’è cambiato un mestiere diventato globale e più esigente e quali leggi e strumenti vorrebbe per diventare più europei
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