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Franco Fanelli
Leggi i suoi articoliIl sistema dell’arte è stato protagonista di un testa-coda e l’ultimo anello della catena, il collezionista, è diventato il primo. E, in catene, gli artisti ci sono finiti per davvero, visto che il predetto sistema, deposte le utopie e gli idealismi del Modernismo, obbedisce al tirannico e oligarchico governo della moda, della finanza e del consumismo pseudoculturale. Il problema, scrive Marco Meneguzzo (1954), storico dell’arte e docente a Brera, è che quei collezionisti sono capitalisti e ignoranti.
Non hanno nulla del coraggio e della spregiudicatezza estetica dei loro ormai lontanissimi parenti d’inizio ’900, delle Peggy Guggenheim o delle Gertrude Stein, che schierandosi a favore della loro contemporaneità affermavano la loro militanza. Se quella generazione di collezionisti costituiva una élite intellettuale cui si guardava con sospetto, commiserazione o irrisione, i loro successori, a partire dagli anni Ottanta, hanno voltato le spalle al valore culturale dell’arte contemporanea tramutandola in mero status symbol.
Laddove, per intenderci, il «symbol» non è l’opera d’arte ma il suo contesto (la galleria superpotente, lo yacht attraccato davanti ai Giardini della Biennale, la fiera cui accedere nelle inaugurazioni riservate ai vip ecc.) e lo status è quello di oligarchi, tycoon o straricchi di varia estrazione per i quali l’arte è un bene di lusso destinato a pochi ma «conosciuto e ambito da tutti», come una Ferrari o una borsetta di Prada.
Questo processo, spiega Meneguzzo nel suo ultimo libro, «ha comportato l’arrivo di molto denaro, paragonabile a un’inondazione susseguente alla rottura di una diga». Pagando, puoi comprarti la citata Ferrari, ma non è necessario che per averla tu debba trasformarti in un Vettel; allo stesso modo, puoi portarti a casa la banana di Cattelan anche se non sai che prima di lui ci sono stati Duchamp e la sua sterminata progenie. L’impoverimento culturale delle ultime generazioni e l’appiattimento delle gerarchie hanno portato all’affermazione di un unico metro di giudizio, cioè il gusto personale.
Quindi, «se tutto è uguale», saranno i collezionisti, con il loro «capitale ignorante» a decretare ascese e tramonti di una popolazione di artisti in continua crescita numerica (in Italia ce ne sarebbero 50mila, il che vuol dire, proporzioni alla mano, che in Cina potrebbero essere un milione). Saltati i valori ideali dell’arte, coloro che aspirano all’ingresso in un club dove più degli artisti contano i top collezionisti, ne accettano le regole estetiche, improntate a una sempre maggiore omologazione: il dinamismo finanziario che sta alimentando il sistema dell’arte corrisponde infatti a una desolante stagnazione di idee da parte degli artisti.
A completare il quadro è l’entrata in campo di nuovi capitalisti, cinesi e indiani soprattutto, appartenenti a culture nelle quali l’arte è trattata con una disinvoltura sconosciuta a ciò che rimane dell’ipocrisia occidentale, cioè come merce e basta. A questo punto è inutile persino «aspettare i barbari» che possano rilanciare una civiltà implosa sulla sua globalizzazione.
E non stupiamoci, aggiunge Meneguzzo, se i musei del Qatar, Paese tra i più reazionari del mondo, spendono mezzo miliardo di dollari per comprare due Gauguin, uno degli artisti simbolo della libertà espressiva: la «colpa» è dei milioni di turisti che visitando quei musei non si rendono conto del paradosso. Da quelle parti (ma diciamo la verità, anche da noi) Gauguin e la finale di Supercoppa di calcio pari sono.
Il capitale ignorante. Ovvero come l’ignoranza sta cambiando l’arte
di Marco Meneguzzo, 135 pp., Johan & Levi, Monza 2019, € 13,00

Dettaglio della copertina di «Il capitale ignorante. Ovvero come l’ignoranza sta cambiando l’arte» di Marco Meneguzzo
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