È dall’inizio della sua carriera, ormai venticinque anni fa, che Paul Pfeiffer cerca di rispondere alla domanda: «Chi sfrutta chi? Sono le immagini che ci trasformano o siamo noi che trasformiamo le immagini?». La sua nuova retrospettiva al Guggenheim Museum è il suo tentativo di risposta.
Dal 30 novembre al 16 marzo 2025 la mostra «Paul Pfeiffer: prologo alla storia della nascita della libertà» presenta oltre trenta opere dell’artista hawaiano (Honolulu, 1966), esplorando la vasta gamma dei suoi approcci creativi: dalle installazioni video, che lo hanno reso famoso, alle fotografie, fino alle sculture degli ultimi anni. La scala delle opere esposte, che variano dalle miniature tipiche degli inizi della sua carriera alle installazioni immense degli ultimi anni, contribuisce a destabilizzare le aspettative dello spettatore, invitandolo a mettere in questione la propria relazione con le immagini che «consuma».
A prescindere dal medium, l’obiettivo della ricerca di Pfeiffer rimane invariato: analizzare l’impatto dell’immagine sulla coscienza collettiva, sulla costruzione dell’identità. Per riuscirci, Pfeiffer si concentra sul mondo dello spettacolo, utilizzando stadi, teatri, set hollywoodiani e idoli della cultura pop contemporanea per identificare i meccanismi attraverso cui creiamo un «noi» verso un «loro», alimentiamo il culto delle celebrità e offriamo ai mass media il potere di influenzare la nostra percezione del mondo. La serie «Incarnator» (dal 2018), ad esempio, realizzata in collaborazione con scultori spagnoli, filippini e messicani, trasforma Justin Bieber in una reincarnazione moderna di Cristo, rielaborando tradizioni ultracentenarie in una riflessione sul culto del sacro nella società contemporanea. Allo stesso modo, in «Four Horsemen of the Apocalypse» (dal 2000), la manipolazione delle fotografie dei match di basket della Nba trasforma i giocatori in figure divine.
L’interesse di Pfeiffer per il cinema e la produzione di immagini, il grande denominatore comune della nostra società, si intuisce già dall’allestimento, ispirato dal design di uno studio del suono. Il titolo stesso della mostra, inoltre, richiama una svolta fondamentale nell’evoluzione del cinema americano, con un riferimento al colossal «I Dieci Comandamenti» di DeMille, il film più costoso mai prodotto all’epoca della sua uscita, nel 1956. E, in maniera più esplicita, con creazioni quali «Red Green Blue» (2022) o «Live from Neverland» (2006), Pfeiffer ci ricorda il pesante processo di post produzione a cui sono sottoposte le trasmissioni televisive e l’impatto di tali manipolazioni sulla nostra comprensione.