Stefano Causa
Leggi i suoi articoliIn questo scorcio di ottobre, che non solo al Sud odora di mezza estate, la storia dell’arte, la sola che piacerebbe provare a raccontare a beneficio degli assenti o di chi si accingesse a partire, la si sta esponendo in Palazzo Corsini, sotto soffitti affrescati di secondo ‘6oo. Con alcuni apici a far da apripista (a cominciare dalla «Madonna» neo donatelliana del Bronzino) vi si tiene, timoniere un infaticabile Fabrizio Moretti, la Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze: BIAF, come si usa contrarre in questi anni digitali, ricchi di acronimi ma dalla panchina culturale corta. Siamo alla numero 33; e, data la varietà e la qualità delle proposte oltreché, naturalmente, dai primi riscontri del pubblico pagante (oggi si dice feedback), la gran mostra sui Lungarni non se la passa male. Anzi. Il mercato è in ripresa non solo per quanto attiene agli scomparti di un contemporaneo che non gode di stabilizzazione del giudizio. Il Tempo, grande scultore annota una scrittrice francese. Ma cosa resterà delle nuove proposte di questo primo quarto di secolo?
Meglio, allora, una rincorsa lunga sugli antichi su cui ci siamo formati e che avrebbero potuto insegnarci a stare meglio con gli altri. Le nature morte. I dipinti sacri e mitologici. Le allegorie. Dicono: è questione di gusti e di gusti non si discute. Ma, come obiettava l’ingegnere milanese Carlo Emilio Gadda: «il gusto è da integrarsi con la cultura». Tutto da sottoscrivere e tatuarsi sul braccio per l’estate ventura. Hai presente vivere con un Morandi del ’29 o con una natura morta di Luca Forte? Hai idea di cosa significhi convivere con una tavola di Battistello o con una mezza figura del Volterrano, resa con la sfrontatezza di scrittura di un Hogarth? Hai presente tenere a capoletto un Floris, una «Madonnina» attribuita ad Annibale Carracci, una santa di Dolci o un Cagnaccio di San Pietro degli anni migliori? Oppure ancora quattro rari, smaglianti Genovesino? O poter toccare con mano (letteralmente) quattro testine giovanili di Bernini? Per chi possa permetterselo, naturalmente (ma siamo sempre diverse spanne sotto l’ultimo o il penultimo dello squadrone dei contemporanei).
C’è di che andarne fieri; crescerci insieme. Alla fine, le opere diventano come persone di famiglia. Gli parli, sembra ti ascoltino; alienarle equivarrebbe a sconfessare una parte di sé. Dunque, armiamoci e partiamo. Quella del Palazzo al Parione è la mostra dell’antiquariato più sfacciatamente bella che ci sia nel nostro Paese, e mica solo per la cornice cogente dove si tiene; ma perché una serie di antiquari, più di ottanta e meno di un centinaio, da ogni regione d’Italia (la storia dell’arte è sempre e comunque geografia dell’arte) si sforza di portare il meglio dei frutti di mesi o anni di ricerche e trouvailles più o meno fortunate. Un lungo guardare. Certo non tutto funziona né è a posto. Per questo, due giorni prima dell’apertura al pubblico, un comitato di garanti (ciascuno nel suo settore, alla fine più di cinquanta) si sforza di correggere o raddrizzare il tiro di alcune attribuzioni. Non è facile: dipende dall’occhio, dalla competenza o dall’estro e dalle intuizioni del momento. La storia dell’arte non è una scienza esatta. Piaccia o meno, come sanno da quarant’anni i lettori di questo giornale, mercato e corridoi di ateneo sono canali comunicanti. E in questi giorni si avvicenderanno in Palazzo Corsini presentazioni di libri e conferenze, a riprova della liceità di far circolare un discorso culturale, alto o basso che sia, oltre la mera vetrina della mostra.
Qualcuno, all’uscita, strizzava l’occhio: la storia dell’arte è troppo importante per essere lasciata agli storici dell’arte. Vorrà pur dire qualcosa che il primo direttore del comitato esecutivo della mostra, nel 1959, fosse il genovese Giacomo Devoto: linguista e, di sensibile riflesso, storico d’arte, scomparso a Firenze mezzo secolo fa. Quanto a quelli che la disciplina hanno contribuito modernamente a reinventarla, è stata vista, più attenta di altri giovani, in Palazzo Corsini anche Mina Gregori, che nel marzo prossimo di anni ne toccherà 101. La mitica signorina, come altrimenti chiamarla? L’aspettiamo per la Biennale n. 34. E l’avventura continua.
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